Sabato 14 Dicembre
Il via libera all’operazione Sdrowa Krowa giunge alle 2.30 di mattina. Di positivo c’è che mi ha svegliato da un incubo nel quale chi si trovava in Afganistan fra fanatici Mujaheddin ero io, per la miseria!
A colazione Guen mi dice che per questo pomeriggio ha già prenotato il volo per me e Rico. Andremo a Rzeszów, presso quel distaccamento tecnico del CSSE dove siamo già stati. Domani mattina parteciperemo alla riunione chiave con i funzionari del CSSE. Vi troverò Hae Myung, libera cittadina.
I saluti di Guen, evidentemente intercettati dalla CIA o chi per essa, hanno avuto effetto. Non solo, ma la sua liberazione significa che se la stanno facendo sotto e che mancano di carta igienica.
Può darsi che l’americana mi consegni del materiale importante. Guen non mi vuole dire di cosa si tratta. Incrocia le dita per scaramanzia. La capisco perché anche a me non va di parlare di mie idee che possono rivelarsi sbagliate o desideri che posso anche non avverarsi.
Domenica 15 Dicembre
Alle 8.30 Rico ed io siamo invitati a sederci attorno ad un tavolo ovale. Rico è ben sveglio, io vorrei dormire, ma ovviamente non sembra sia consentito. Quel tavolo infatti si trova in una saletta del distaccamento tecnico del CSSE, al 12simo piano dello stesso grande edificio a vetri nella zona commerciale di Rzeszów dove pochi giorni prima ci aveva portato Aron Topolski.
La prima persona che metto a fuoco è Manù anche perché è proprio di fronte a me. Non è sorridente e gioviale come al solito. È pur sempre paffutella, ma è seriosa, la fronte è solcata da rughe.
Poi ritrovo il volto intrigante di Małgorzata Jankowska intenta a parlare amabilmente con una giovane donna, Hae Myung. Sembra aver fatto pace con la sua rivale in amore. Cosa sarà accaduto?
Però non può essere l’unico americano qua dentro, mi dico.
Infatti accanto a Topolski inquadro un tizio che mi sembra di avere già visto. Mr. Galett? Così lo ha apostrofato l’ispettore Liverani quando Guen ed io fummo convocati da Amulio. Deve essere lui.
I convenevoli sono soltanto brevi cenni di saluto mentre fa il suo ingresso un tipo alto, capelli bianchi, dall’incedere teutonico, seguito da una signora che porta una cartella.
Si siedono a capotavola.
Topolski lo presenta. Si tratta del maggiore Thomas Hentscher, un berlinese, capo del dipartimento Controspionaggio del CSSE, accompagnato dalla sua segretaria.
Costui dà inizio alla riunione dichiarando che quanto viene detto in quella sala è registrato ed è assolutamente “Top Secret”. I trasgressori sono imputabili di alto tradimento.
Passa subito a spiegare, impietosamente per un marmoreo Mr. Galett, che Peste Nera, il programma che ha infestato le basi militari americane, è stato fermato manualmente per il semplice fatto che sono stati gli stessi americani ad attivarlo, nell’ambito dell’operazione PRION.
Non lo dice, ma è facile immaginare che oltre a cercare di riattizzare un conflitto armato fra Russia ed Ucraina, costoro l’abbiano fatto per poter accusare con maggior forza i servizi segreti russi e porre le basi per sanzioni economiche alla potenza rivale, col consenso degli alleati. Ormai le guerre fra grandi potenze sono fatte anche a colpi di dazi, sanzioni economiche… e deep fake.
Il maggiore spiega che per fermare il fratello di Peste Nera, cioè PRION, i progettisti hanno adottato un modo funzionante anche in assenza di un intervento all’interno delle basi infettate.
A questo scopo, a PRION è stato dato il compito di controllare ogni giorno i necrologi pubblicati su 3 quotidiani: il “Neues Deutschland”, quotidiano tedesco, la “Nesavisimaja Gazeta”, quotidiano russo e il “Den”, quotidiano ucraino, versione in russo. Nel caso in cui almeno in uno di essi compaia l’annuncio della morte di un certo Alan Emmo Leichenberg personaggio fittizio, deceduto a Lipsia 13 giorni prima della data del quotidiano, deve cessare ogni attività.
Sebbene la pubblicazione sul Neues Deutschland non sia comparsa, i PRION nelle basi di Andriivka e Krasne hanno obbedito, quello di Staryi Saltiv, no.
Da un momento all’altro l’operazione PRION potrebbe essere scoperta e suscitare un can-can internazionale ai danni degli Stati Uniti che dopotutto sono nostri alleati. “Dopo tutto” – mi dico.
Poi infligge un altro colpo di frusta all’americano. Mentre appunta gli occhi su di lui, dichiara che per fortuna, un suo connazionale di buon senso, ha passato il codice sorgente di PRION ad uno scienziato collaboratore del CSSE. Ciò ha permesso la realizzazione di Sdrowa Krowa, un software in grado di distruggere il codice sorgente di PRION.
Adesso so per certo che Małgorzata Jankowska, capo del progetto Sdrowa Krowa, è innocente. Daniel Karlsson è stato incastrato. Tenuto all’oscuro del fatto che sono stati i suoi connazionali ad introdurre Peste Nera nella base militare di Baltimora, si è bevuto il sospetto che fossero stati i russi, aiutati dalla Jankowska a produrre Peste Nera. Così si è dannata l’anima per niente, fino ad un orribile suicidio.
Tuttavia, prosegue Hentscher, è noto che i sistemi informatici delle basi militari sono ben difficilmente attaccabili dall’esterno, quindi, onde avere la sicurezza che l’operazione di annullamento di PRION a Staryi Saltiv vada a buon fine, Sdrowa Krowa deve essere introdotto manualmente, cioè tramite l’inserimento di una chiavetta USB in un terminale del sistema.
Nell’Ucraina orientale le installazioni militari sono di difficile penetrazione sia per il CSSE che per la CIA. Quel contatto che aveva permesso alla CIA di piazzare PRION nell’unità centrale di calcolo della base di Staryi Saltiv è morto in circostanze ancora da chiarire e non sono riusciti a sostituirlo, neppure con l’aiuto del Mossad.
Ciò detto, passa la parola a Manuella Roych.
Manù, che non mi ha neppure salutato, dopo breve introduzione pronuncia il mio nome e vengo immediatamente trafitto dagli sguardi di tutti i presenti. L’unico sorriso che mi sfiora è quello di Hae Myung. Altra cosa confortante che mi sembra di capire è che Topolski parla correntemente l’ucraino e che accompagnerà me e Rico all’incontro col capo Rom. Saranno Aron Topolski ed il Rom ad entrare nella base.
Mi domando perché adesso tutti tacciano. Poi mi è chiaro: qualcuno mi ha ceduto la parola. Spero solo di saper dire qualcosa che abbia senso.
Pare di sì, perché alla fine sento dire: – «Congratulazioni Mr. de Carolis. Il suo contatto sembra assai più affidabile di quello legato a Nikola Osmjak.» e poi vari “good luck”, ed altre espressioni che non capisco. La Jankowska aspetta un attimo di silenzio per dirmi qualcosa che saprò poi essere: “powodzenia”, ovvero “in bocca al lupo” dei polacchi.
Terminata la riunione, Rico ed io veniamo invitati da Topolski nel suo ufficio per un briefing assieme a Manù, la Jankowska ed Hae Myung. Di mangiare qualcosa non se ne parla.
Seduta alla scrivania di Topolski, è Manù che conduce. Attiva un registratore e ripete quello che ha detto Hentscher riguardo alla totale segretezza su quanto viene detto in quella stanza.
La Jankowska pone sulla scrivania tre piccole chiavette USB sulle quali subito si appuntano gli sguardi.
Con gesti solenni Manù ne sposta una davanti a Topolski, una davanti a me ed una davanti a Rico.
«Potete prenderle.» – invita Manù – «… anche se scottano.»
Questa specie di battutella allenta un po’ la tensione.
«Contengono Sdrowa Krowa, una speciale variante di programmi tipo Deep Locker.» – interviene la Jankowska, rivolta a Rico ed a me – «Sapete cos’è?»
Rico annuisce, io scuoto la testa.
«Sono programmi basati sull’Intelligenza Artificiale, in grado di infiltrarsi in un sistema informatico senza essere intercettati e poi svolgere compiti specifici.» – mi spiega – «Quello che abbiamo elaborato è progettato specificatamente per scovare PRION e, diciamo così, colpirlo alle spalle e quindi distruggerlo. Non abbiamo neppure tentato di introdurlo via Internet perché la probabilità che fosse intercettato dai sistemi di sicurezza elaborati dallo stesso PRION non è trascurabile. Una volta che fosse scoperto e neutralizzato non avremmo per almeno un po’ di tempo altra chance di successo.»
«Stuxnet.» – mi viene di dire a fior di labbra.
«Alla lontana.» – concede la specialista – «Quello era un worm molto sofisticato, un precursore dei Deep Locker. Anche Stuxnet, creato congiuntamente da americani ed israeliani, dovette essere inserito tramite una chiavetta USB nel sistema informatico da colpire. Si trattava allora del sistema di controllo delle centrifughe per l’estrazione dell’uranio radioattivo nel centro nucleare di Natanz, in Iran. Fece Storia.»
«E la Storia si ripete.» – dichiara Manù – «Una di quelle chiavette che avete davanti, deve essere inserita in una presa USB di un terminale della base, là a Staryi Saltiv. Questo qualcuno o è il maggiore Aron Topolski o è lo stesso Baxtalo Khoniev che entrerà con il maggiore nella base. La terza chiavetta è di riserva. Quanto a voi due della Omega Investigazioni, dovete tenervi a disposizione, qualora il maggiore Topolski per una qualsiasi ragione fosse impossibilitato ad affiancare il Rom.»
Non me lo aspettavo. Questo si chiama cambiare le carte in tavola! Rico è impassibile ed io non posso che imitarlo.
«Uno dei problemi è che non siamo riusciti ad avere una mappa della base» – prosegue Manù.
Hae Myung mi guarda e sorride. Così mostro le foto ed i videoclip girati nella finta base militare nell’High Desert dell’Oregon. Topolski e Rico le esaminano con particolare attenzione. Infine: congratulazioni.
Ancora! Congratulazioni un piffero! Per quale ragione gli americani, ormai così contriti ed interessati a mettere tutto a tacere non hanno fornito loro le mappe dettagliate? Risposta: sostengono che sono state distrutte e che stanno per radere al suolo la base nell’Oregon per sicurezza, dopo che è stata violata da stranieri. In sostanza per colpa nostra, hanno detto.
Topolski sogghigna.
«Secondo me è il trionfo dell’ipocrisia.» – afferma – «Qualcuno oltre oceano non vuole cedere fino in fondo. Hanno concesso il nostro intervento per bloccare il PRION riottoso. Se non riesce è colpa nostra e loro raggiungono l’obiettivo in barba ai cinesi.»
«In barba ai cinesi?» – domando – «Che vuol dire?»
Manù lancia uno sguardo di rimprovero a Topolski che istintivamente si copre la bocca. C’è un imbarazzante scambio di occhiate, poi la stessa Manù, forse anche un po’ compiaciuta di poterlo fare, si decide a spiegare rivolta a noi italiani. Fa una premessa:
«Quello che ha appena detto il maggiore Aron Topolski è una sua opinione personale e non dovete tenerne in alcun conto.»
«Anche del fatto che in qualche modo c’entrano i cinesi?» – ribatto.
Nel dir così, involontariamente guardo Hae Myung e questa mi fa un breve segno d’intesa facilmente interpretabile come un “poi ti dirò”.
La cosa non sfugge a Manù che con un gesto di disappunto dice, rivolta a me:
«E va bene. Visto che la sua malsana curiosità la porterà prima o poi a sapere, l’accontento.» – poi, rivolta a tutti – «Non solo non dovete parlare con alcuno di quello che sto per dirvi, ma dovete cancellarlo dalle vostre menti. È tassativo.»
Vengo in tal modo a sapere che, grazie all’azione congiunta di Hae Myung e Bit Chopin, si è da poco scoperto che circa una settimana prima, precisamente Domenica 8 Dicembre alle 6 di mattina ora dell’Europa centrale, è avvenuta una riunione segreta fra ministri degli esteri americani e cinesi. La riunione si è tenuta a Subi Reef, un’isola artificiale costruita dai cinesi nell’arcipelago Spratly, nel Mar Cinese Meridionale, più o meno a metà strada fra il Vietnam e le Filippine. Localmente erano le 12, cioè l’ora di Shangai. La riunione si è protratta per oltre 3 ore.
I cinesi hanno rivelato di essere a conoscenza di tutti i dettagli delle operazioni PRION e Peste Nera. Sono stati loro ad aver introdotto copie di PRION nelle altre basi ucraine e americane.
Come abbiano fatto è ancora oggetto di accertamenti. Comunque hanno dichiarato che non avrebbero continuato ad infettare altre basi militari o altre organizzazioni e soprattutto non rivelato al mondo le vergognose operazioni segrete americane a patto che facessero cessare immediatamente la guerra dei dazi iniziata dalla Casa Bianca.
L’accettazione delle condizioni proposte dalla Cina, non trattabili, è avvenuta entro la mezzanotte del giorno stesso, ora nostra.
Nel corso di Martedì 10 Dicembre gli americani hanno interrotto l’operazione PRION e Peste Nera ed avviato ufficialmente le procedure per l’abolizione dei dazi. I vari programmi hanno interrotto la loro attività, eccetto PRION operante a Staryi Saltiv. Di questo fatto gli americani non erano a conoscenza fino all’intercettazione della telefonata fra Hae Myung e Guendalina. Hanno immediatamente indagato e con l’aiuto di Hae, hanno verificato la situazione in quella base. A quel punto qualche alto papavero, magari a dispetto di altri suoi pari, ha deciso di far liberare Hae, di chiedere la sua collaborazione e di rivolgersi al CSSE.
«Lei, Manù, mi vuole dire che i cinesi, pur possedendo una copia di PRION, non sono in grado di fermarlo?» – obietto.
L’interpellata lascia parlare la Jankowska:
«È imbarazzante ammetterlo, ma ancora non sappiamo cosa sanno o non sanno i cinesi. Ci sono diverse equipe di esperti del CSSE che stanno indagando. Ci vuole tempo.»
Mi salta in mente una domanda.
«I FIN svolgono un ruolo in tutta questa faccenda?»
«Non faccia domande inappropriate, de Carolis!» – mi ammonisce Manuella Roych.
«Meglio rispondere.» – interviene la Jankowska.
Così spiega che gli americani hanno approfittato delle competenze dei creatori di TUM, i fondatori della chiesa FIN – adopra proprio la parola “chiesa”. Agenti dell’NSA si sono infiltrati nell’organizzazione dei FIN e, a suon di dollari, hanno reclutato dei seguaci super-esperti. Del resto, il CSSE ha fatto lo stesso infiltrando persone come lei stessa negli alti gradi della gerarchia FIN. È così che è nato PRION, al quale lei ha collaborato, come consulente esterna, alla squadra guidata da Daniel Karlsson.
«Chiedo scusa.» – è la voce di Rico – «Ma i cinesi non potrebbero aver fatto altrettanto?»
«Potrebbero.» – risponde la Jankowska.
«Huan Teng!» – mi trattengo dal gridare – «Lei, Małgorzata, deve averlo incontrato quel cinese alla Stanford, al dipartimento di Matematica. È certamente un seguace di TUM… o un finto seguace…»
Manù scambia un’occhiata con la Jankowska e dichiara che s’indagherà anche su quel Huan Teng.
«Però ora, ingegner de Carolis!» – aggiunge – «Atteniamoci all’argomento di questo briefing. Va bene?»
«O. K.» – insisto – «Ho un’ultima domanda.»
«Ce l’abbiamo tutti quella domanda.» – mi blocca seccamente – «Perché PRION a Staryi Saltiv non ha obbedito all’ordine di fermarsi? Non lo sappiamo e basta. Procediamo con le consegne.» – sono riuscito mio malgrado ad esasperarla.
Al termine della riunione accedo finalmente al locale dove si trovano alcune macchine distributrici di quello che in quel momento mi sembra ogni ben di Dio e che in altri momenti avrei classificato come cibo spazzatura. Rico ed io non siamo soli, evidentemente anche altri sono stati così rispettosi come me nel tenersi il languorino.
Dopo un paio di sandwich leggermente ammuffiti – ma chi se ne importa – vedo Rico a colloquio con quell’antipatico di Mr. Galett. Dopo un caffè che non merita aggettivi, mi faccio forza e mi avvicino ai due. Il colloquio sembra terminare in quel momento. Con quell’americano scambio soltanto un’occhiataccia di sfuggita. Rico invece lo saluta con un cenno che mi sembra d’intesa.
«Allora?» – lo sfido – «Che aveva da dirti quell’individuo?»
«Si calmi capo. Sono stato io a volergli parlare.»
«Sì?» – comincio a rendermi conto di essere stupidamente aggressivo.
«Beh, dopo quello che lei e Guen mi avete raccontato di tutta la questione di Daniel Karlsson e del codice sorgente di PRION ceduto al CSSE, mi è venuto un dubbio: chi ci dice che Karlsson abbia dato alla Jankowska il codice giusto?»
«Come ti può saltare in mente?»
«Mi esprimo meglio: chi ci dice che poi quel codice non sia stato cambiato, magari per migliorarlo? Infondo, dai calcoli che ho fatto, è passato un po’ di tempo fra la cessione del codice alla Jankowska e l’introduzione di PRION a Staryi Saltiv.»
«Vero. Ma non so chi ci può dire qualcosa in proposito. Quel Galett?»
«È un burocrate, ma mi ha assicurato che se ne occuperà.»
«Un burocrate. Andiamo a cercarci un alloggio per stasera.»
Guen, prima che partissi da Roma mi ha detto che Hae Myung dovrebbe darmi qualcosa di importante.
Non riesco a trovarla. Se avesse avuto quel qualcosa, me lo avrebbe dato. Che diavolo sarà? La mia curiosità cresce.
A sera metto Guendalina al corrente di tutto con preghiera di registrare tutte le date e le informazioni che mi potranno essere utili in caso mi venisse l’idea di scrivere un thriller. È preoccupata ed anch’io lo sono. Il ruolo mio e di Rico presenta degli aspetti non chiari, soprattutto riguardo ai rischi cui andiamo incontro.
Lunedì 16 Dicembre
Aron Topolski, Rico ed io atterriamo all’aeroporto internazionale di Kharkiv intorno alle 15.30, ora locale, che è un’ora in più rispetto a quella di Rzeszów e di Roma. Fa piuttosto freddo. Il cielo è limpido, siamo vicini al solstizio d’inverno ed a questa latitudine si cominciano già a vedere le stelle in cielo. Il pilota prima dell’atterraggio ci aveva comunicato che la temperatura a terra sarebbe stata di -5 gradi, in diminuzione.
Il controllo passaporti ed il cambio Euro/Grivnia (la moneta ucraina), porta via una buona mezzora. C’infiliamo di corsa nella Zaz Force presa a noleggio. È un’auto di media cilindrata molto comune da quelle parti.
Topolski si mette alla guida. Imposta il navigatore per Zarozhne, più o meno dove ci dovremo incontrare con Baxtalo Khoniev.
Raggiungiamo quella cittadina intorno alle 17. Si è fatta ormai notte. Il problema è che la località del campo Rom dove vive Khoniev non è segnalata sulle mappe del navigatore. Dall’incartamento fornitoci da Jaromir Krylenko, Rico legge a Topolski le istruzioni per procedere.
Girovaghiamo per strade e stradine di una campagna semideserta e completamente buia, salvo rare luci gialle, spettrali, fissate in cima a pali di legno, attenti ad ogni cartello o indicazione che incontriamo. Ad un certo punto ci inoltriamo in una vera e propria foresta. Procediamo lentamente. La strada sterrata è fortemente accidentata perché solcata da profonde tracce indurite dal gelo che sembrano lasciate da carri armati. In effetti lunghi tratti della strada sono costeggiati da recinzioni fatte di robuste reti e talvolta di filo spinato, con cartelli che non riesco a leggere, ma che presumibilmente denotano la presenza di insediamenti militari. La guerra contro i filorussi del Donbass che ancora serpeggia, lascia le sue brave tracce nel territorio.
Dopo una buona ventina di minuti di sballottamenti sbuchiamo finalmente a rivedere le stelle, come dice il Poeta. Si vedono gruppi di luci in lontananza. In qualche minuto giungiamo ad un paesetto che nelle istruzioni di Jaromir è indicato come Velyka Babka. Ad est dell’agglomerato di case riusciamo finalmente a localizzare un accampamento scarsamente illuminato: tende, roulotte e camper, falò attorniati da gente, alcuni mucchi di rottami o che altro. Sono loro i Kobzari di Baxtalo Khoniev?
Ci avviciniamo lentamente all’ingresso. Da sotto una tettoia escono due figuri infagottati che con le braccia si battono il corpo per il freddo. Si parano davanti all’auto armati di torce elettriche. Uno accosta il suo faccione a lato Topolski, l’altro mi pianta addosso due occhi indagatori. Abbasso il vetro e cerco di pronunciare le parole indicate nelle istruzioni.
«Mivesalme didebulebs Kobzars» – che, come indicato nelle istruzioni di Jaromir, in lingua Georgiana, magari pronunciato correttamente, significa “Salute a voi nobili Kobzari”
Quello mi guarda e sotto dei grossi mustacchi mostra denti bianchissimi. Ride! Poi credo ripeta le parole che ho detto come secondo lui dovrebbero essere dette. Poi, sempre sghignazzando, scambia altre parole col compare.
Si affaccia di nuovo al finestrino e bofonchia qualcosa. Topolski mi dice di dire il mio nome. Lo faccio. Ancora un borbottio.
Topolski traduce: – «Le domanda com’è il tempo a Kutaisi o qualcosa del genere. Chissà dov’è.»
È il momento di rispondere “dzalian karia” che in georgiano significa “tira molto vento”.
Sempre sogghignando e scambiandosi pacche sulle spalle, i due si mettono davanti all’auto e ci fanno cenno di seguirli. Ci muoviamo in mezzo a tende, baracche, baracchette e bivacchi. Bisogna fare attenzione a rifiuti di vario genere, tratti ghiacciati e grosse buche. Topolski mugugna. Rasentiamo quello che sembra un accampamento dentro l’accampamento, delimitato da roulotte, camper ed alcuni di quei vecchi o dovrei dire antichi carri di legno che usavano i nomadi. S’intravede anche un tendone da circo.
Percorsi circa 200 metri, giungiamo ad una roulotte molto grande ed all’apparenza lussuosa, munita di una tettoia che ne protegge l’ingresso, illuminato da una grossa lampada altalenante. Ci indicano di lasciare l’auto a lato di una grossa Oldsmobile nera, del secolo passato, piuttosto malandata, forse l’auto del raya, il capo.
Uno degli angeli custodi strilla qualcosa e dopo un po’ sulla porta compare una figura femminile. Fa cenno ai due di allontanarsi. In pratica li caccia via e ci invita ad entrare.
L’interno appare sorprendentemente spazioso, luminoso, caldo e moderatamente lindo. A capo di un tavolo siede come in trono un personaggio massiccio, l’aspetto fiero, dai lineamenti vagamente asiatici, le mani enormi, pesantemente inanellate. Anch’egli, come i due guardiani ostenta notevoli mustacchi con le punte rivolte in giù. Immagino abbia un 40-45 anni. In testa porta una specie di caschetto grigiastro, di stoffa o di lana. Veste una blusa di panno rosso mattone, finemente decorata. Ci scruta uno ad uno, poi punta l’indice verso di me.
«Ty Dagoberto de Carolis».
Gli faccio cenno di sì con la testa.
«Rozmovlyayete ukrayinsʹkoyu?» – forse è: “Parli l’ucraino?”
Scuoto la testa.
«Togda po-russki!» – “allora parli il russo!”
«Niet.»
«O. K.» – passa all’inglese – «Fa niente. Me l’ha detto Jaromir che mi avresti dato dei problemi. Ma forse è meglio così.» – ciò detto mostra un ampio sorriso. Si alza in piedi e rivolto a tutti: – «Benvenuti nella tenda di Baxtalo.»
Seguono brevi presentazioni con strette di mano. La sua mano fa sembrare la mia quella di un ragazzino e quando me la stringe gli anelli che la ornano mi fanno male.
Alla donna che ci ha aperto fa cenno di avvicinarsi.
«Questa è Keti, la mia prima figlia. È qui per darvi il benvenuto.»
È una donna dalla bellezza coinvolgente, altera, i lineamenti decisamente europei, i capelli castani sciolti che le ricadono sulle spalle. Cosa mi dicono quegli occhi scuri che sembrano un’eco lontana e sfuggente di un immagine già vista? Dove? Quando? Non so. China appena la testa e subito ci guarda uno ad uno.
Ad un cenno del padre, con mosse eleganti pone sul tavolo un servito da tè. Da un ragguardevole samovar d’argento finemente cesellato, versa del tè per tutti, accennando appena sorrisi di cortesia.
Noi uomini ci sediamo. In un silenzio che evoca un rito antico sorseggiamo un tè che per la prima volta in vita mia trovo non disgustoso, quasi gradevole. Alle mie spalle aleggia il fascino che emana da Keti.
Infine Baxtalo mi indica di nuovo.
«Ty Dagoberto rimani qui con me. Dobbiamo parlare da soli.» – poi, rivolto agli altri – «Keti vi indicherà i vostri alloggi. Abbiamo ospitato una compagnia di Lautari che in cambio ci offrirà uno spettacolo. Comunque vadano le cose potrete assistervi ed alla fine ci sarà una cena in vostro onore.»
Una volta soli porgo a Baxtalo l’involucro affidatomi da Jaromir. Colgo un lampo negli occhi di quell’uomo. Forse crede di aver capito di cosa si tratta. Con la calma di chi vuol gustare un momento importante, lo apre. Lascia cadere per terra la carta e contempla l’icona. Le sue mani hanno un fremito ed il volto è assorto in contemplazione di chissà quali vissuti. Lascio scorrere il tempo. Quando sembra tornato dai suoi luoghi reconditi, gli spiego come all’interno si trovi sigillata una microflash memory. Ma è come se non avessi aperto bocca.
Infine si alza. Da un pensile prende una bottiglia. Slivoviz. Due bicchieri. Gli faccio cenno che per me, no. Mi guarda. Sarebbe un’offesa. Me ne faccio versare appena un dito. Lui, se ne serve un bel po’ e tira giù in un sol sorso che quasi mi aspetto che poi getti il bicchiere dietro le spalle, come si vede in certi film sui russi.
Ripulitosi ben bene i mustacchi con un fazzoletto, apre il sigillo ed accede al microchip. Da un cassetto prende su un tablet, vi introduce l’oggetto e comincia a guardare. Si odono delle parole. Interrompe la riproduzione. Inserisce degli auricolari. Si sistema in modo che solo lui possa vedere le immagini che scorrono sullo schermo mentre il suo volto ne è illuminato di riflesso.
Non so quanto tempo passa così. Trovo sconveniente guardare l’orologio. Ogni tanto accarezza il bicchiere e getta un rapido sguardo alla bottiglia. Ad un certo punto spegne il tablet, lo posa sul tavolo. È incupito, direi afflitto da una sofferenza, da un risentimento. Mi guarda come fosse arrabbiato con me. Mentre cerco di leggere quel volto improvvisamente indurito, sono colto dalla paura che tutta la missione volga al fallimento.
«Perché!» – urla e batte di piatto una delle sue grosse mani sul tavolo che a causa dei grossi anelli che porta alle dita, suona come una martellata – «Perché non è venuta qui, da me?» – si percuote il petto – «Tu lo sai?»
Dunque il messaggio audiovisivo non è bastato, qualunque cosa volesse trasmettere. Immagino che Olesya non se la sia sentita di farsi vedere su una sedia a rotelle, disabilitata in quel modo. Cosa c’è stato fra loro due?
E ora che faccio? Rivelo ciò che Olesya non vuol rivelare o tento di salvare il salvabile?
«No!» – stavolta l’urlo è arrochito dall’ira – «Baxtalo Khoniev non può sopportare questo! No. Non se ne farà niente. Niente, ho detto! Al diavolo tutti! Tutti quanti!»
Mi schiarisco la voce e provo questa:
«Lei ha mai sentito parlare di Nikola Osmjak?»
Sputa per terra.
«Ecco cos’è quello!» – bofonchia.
«Credo si serviranno di lui per entrare a Staryi Saltiv, se lei…»
Altro sputo, deciso, carico d’odio. Poi un ghigno amaro.
«Che lo facciano. Sarà come essersi fidati di Beng!» – sghignazza. Si versa un bel po’ di slivoviz e lo trangugia.
«Di Beng?» – cerco di prender tempo per decidere, visto che non gli importa se Osmjak va a prendere il suo posto.
«Del diavolo! Straniero, del diavolo in persona!»
Ohi, ohi, sono diventato uno straniero. Basta. Ho deciso.
«Olesya non può venire e forse vuole che lei la ricordi come era.» – sul cellulare gli mostro la registrazione del colloquio avuto con Jaromir ed Olesya via Skype.
Mentre anch’io osservo scorrere quelle immagini, rivedo il volto di Olesya Vovk. Stavolta sono colto dai suoi occhi scuri, profondi. Subito mi balzano in mente quelli di Keti. Sul volto di Olesya Vovk, segnato da un vissuto sofferto non si può non cogliere i lineamenti e l’energia che anima la figlia di Baxtalo.
Al termine della registrazione il raya si rilassa sulla sedia. Il silenzio, rotto dall’eco di lontane fisarmoniche si protrae fino a che, tratto di nuovo il fazzoletto, mi vuol far credere di soffiarsi il naso.
Chiude la bottiglia.
«Va bene, Dagoberto. Suppongo debba ringraziarti… Comunque siamo intesi: non ne farò parola… voglio dire quando le invierò la mia risposta.»
Ci rilassiamo.
«L’hai fatto per tranquillizzare il vecchio Baxtalo, vero?» – poi colto da un altro pensiero – «Ma forse l’hai fatto per l’incarico riguardo a Staryi Saltiv.»
«Olesya è perseguitata da Osmjak.» – gli dico – «Vuole toglierle la vita. Ora quello è in una galera italiana… a vita. Ho l’incarico di fare in modo che ci rimanga.»
Mi guarda, si accarezza il mento ed annuisce. Lo leggo come “Se è così, mi sta bene.”
Nello stesso momento sono colto da molte domande: Keti, Olesya, Baxtalo, Osmjak… che relazioni vi sono fra i quattro personaggi? Che ha fatto Olesya per provocare l’odio di Osmjak? Che ha fatto Osmjak per provocare l’odio, il disprezzo di Baxtalo Khoniev? C’entra in qualche modo il profondo blu degli occhi delle due donne?
Rimaniamo ancora un po’ a guardarci in faccia, cosa che mi imbarazza non poco. Finalmente percuote di nuovo il tavolo con la mano e tuona: – «I khay bude!» – poi abbassa il tono e mi ripete in inglese – «E sia!» – poi aggiunge – «Ti avverto che sarà dura, amico, molto dura.»
Reprimo una domanda: “Per chi?” – poi mi si fa notte. Vuoi vedere che questo vuole che entri in quella base militare…
Sembra che mi legga dentro, perché fa di sì con la testa.
Si accende un sigaro e mentre aspira le prime boccate mi dice che Jaromir Krylenko gli ha parlato molto bene di me e di Rico.
«Molto bene.» – insiste – «Verrete voi due con me là dentro.»
«Ma gli ordini…» – provo a dire.
Scuote la testa.
«Topolski… si opporrà… non permetterà…» – insisto.
«Non mi piace Topolski. Non mi piacciono le spie. Voglio voi due e basta.»
«Dire che è una spia, mi sembra…»
«Qui decido io. E non dire che non sai vincere la paura, perché so che non è vero.» – il tono è definitivo.
Gratificato, come un imbecille gli domando:
«Allora, quando?»
«Andiamo.»
«Adesso? Così, senza…»
«Non fare il tonto! Il teatrino dei Lautari, grandi musicisti! Si chiama così, ma di veri Lautari ve ne saranno soltanto 2 o 3. Però sono tutti bravi attori e ci sono belle donne.» – consulta l’orologio – «Sta per cominciare. Di affari parleremo domani mattina.»