A sera, mentre a Roma è il primo pomeriggio, giunge una telefonata da Rico il cui succo è:
Stamani mattina alle 8.10, ora di Roma, Małgorzata Jankowska è stata prelevata dall’ospedale ed accompagnata all’aeroporto di Ciampino. Era uscita dal coma farmacologico in buone condizioni ieri mattina, Venerdì.
«Alle 10.35, assistita da un medico ed un’infermiera polacchi» – continua Rico – «è partita su un aereo di linea per Cracovia. Ho indagato. Dai documenti presentati sembra che chi l’ha prelevata, a parte l’infermiera ed il medico, sia stato un fratello. Da ulteriori accertamenti ho scoperto che non ha fratelli, ma una sorella più giovane che abita a Danzica.»
Misteriosa Jankowska.
Domenica I Dicembre
Giungiamo a Redmond intorno alle 11. Fa freddo. Meno male che siamo ben infagottati in comodi eskimo. Noleggiamo un Acura MDX, un crossover della Honda. Quando giungiamo al Cascade International Mounted Archery Center, fa ancora più freddo. Spira una forte, gelida brezza da nord‑ovest ed il cielo è d’un grigio perla che annuncia neve. Nonostante ciò, aitanti arcieri a cavallo, uomini e donne, se ne vanno in giro scoccando frecce ai bersagli disseminati lungo i sentieri che si snodano fra sterpaglie e sparsi gruppi di conifere. Capisco solo allora che “mounted archery” è il tiro con l’arco da cavallo al galoppo. Ci azzeccano pure. Bravi.
Ci registriamo come visitatori. Al banco di accoglienza Hae Myung mostra un paio di foto di Karlsson all’impiegato che scuote la testa. Allora chiede a Guendalina di mostrare la tessera del club. Per motivi di privacy non possono fornire informazioni sui soci, è categorico. Ci rechiamo al ristorante. La cameriera è ancora più burbera nel rispondere alle nostre domande. Ci consoliamo con una bistecca, patatine fritte, che per me sono come una droga, ed abbondante insalata mista. Un paio di bicchieri di Buffalo Grove Wine, un vino californiano di 14 gradi, danno il colpo di grazia a curiosità, ansie e quant’altro. Mi manca soltanto un bel letto per una siesta. Anche le signore sono dello stesso parere.
Sono quasi le 14. Ciondolando andiamo in giro per trovare almeno delle comode poltrone. Le troviamo, ma Hae esita. Si scusa. Decide di cercare qualche altro contatto.
Torna dopo una decina di minuti.
Aprire le palpebre mi costa quanto tirar su la serranda in legno di una porta‑finestra.
In breve, poiché agli ospiti è concesso di visitare le stalle, si è imbattuta in un indiano Chinook che le ha fornito un’interessante informazione… a pagamento, è chiaro.
Intanto le ha detto che lui si chiama Tyee e che ci si deve rivolgere a lui come “Chief”, cioè Capo, perché questo significa il suo nome nella lingua dei Chinook. Dopo aver guardato in silenzio le foto di Dan, a forza di dollari le ha detto che questo “uomo Carson”, così si ostina a chiamarlo, è strano perché sparisce nel deserto dove si trova la città dei morti. Ora è un bel po’ di tempo che non si è visto da quelle parti.
La accompagniamo dall’indiano.
Lo troviamo mentre accudisce una cavalla. Sicuramente ci ha visto con la coda dell’occhio, ma fa finta di niente. Il suo volto è impressionante. Non è proprio vecchio ma, come dire, è come arato da rughe profonde.
Guen lo apostrofa con «Big Chief Chinook, ho sentito dire che parli di una città dei morti, che sarebbe nell’High Desert, ma come vuoi che ti crediamo?»
Tyee si blocca, ma non si volta a guardarla.
Guen continua sotto lo sguardo preoccupato di Hae Myung.
«Immagino tu sia una persona molto rispettabile, quindi accetterai una scommessa.»
Tyee le rivolge un sorriso che mi sembra piuttosto esagerato.
«Hwah-wa! Un essere umano! Peccato che tu sia klootchman.»
«Che vuoi dire Big Chief Chinook, spiegati meglio.»
«Vuol dire che ti costerà di più perché sei donna, chiaro?»
«Vedremo. Forse hai paura di perdere.»
«Mai!»
«O.K. Così saresti disposto a scommettere che la città dei morti esiste davvero?»
«Sì. Io dico che esiste.» – afferma impettito.
«Sei disposto a portarci là, voglio dire dentro la città. O hai paura dei morti?»
La risata dell’indiano mi sembra un po’ forzata.
Guen non molla.
«Ah ah ah sì, o ah ah ah no?»
«Sì, ma costerà 10 dollari a lui, 20 a lei» – indica prima me poi Hae Myung» – – «e… 30 dollari a te… perché sei davvero khul tan’-as!»
«Ricominci con il tuo indiano?»
«Sei una bambina cocciuta. Ho detto.»
«In questo hai ragione. Però hai in pratica detto che scommetti 60 dollari. Vuol dire che se la città non si trova ci darai tu 60 dollari.»
La brezza da nord-ovest è diventata un vento forte ed un pulviscolo gelido ci investe a folate.
Tyee punta l’indice verso il cielo.
«20 miglia ad Alfalfa» – sentenzia – «e poi solo deserto… Almeno altre 20 miglia. Se tempesta di neve, noi bloccati.»
Hae Myung consulta lo smartphone.
«La tempesta arriverà, ma domani mattina. Con le strade che ci sono qua, Saremo ad Alfalfa in 20 minuti. Avremo tutto il tempo.»
L’indiano è perplesso. Guen gli lancia un’occhiata condita con uno dei suoi sorrisetti.
«O.K.» – sbotta – «60 dollari subito e partiamo.»
«30 ora. Se troviamo la città ti daremo gli altri 30, altrimenti Tyee rispetta la scommessa e ci dà lui 60 dollari.»
«E il mio tempo? Dimmi, khul tan’as, chi paga il mio tempo? Devi ammettere che il mio tempo costa. Io qui 60 dollari al giorno. Se vengo con voi…»
«Basta così, Big Chief Chinook. Restituirai soltanto i 30 dollari.»
In risposta, scorta la cavalla al suo box e sostituisce il grembiule di cuoio con un eskimo.
Ci volta le spalle mentre fa una concitata telefonata tutta in lingua Chinook.
Quando si volta di nuovo verso di noi: – «Andiamo.» – mormora – «Tre ore di luce. Con questo tempo, meglio non fare notte nell’High Desert.»
Prima di montare in macchina ci guarda e sfrega il pollice con l’indice.
«Chik’-a-min, chik’-a-min.»
Ho capito. Gli metto 30 dollari in mano, così smette di fregarsi le dita in quel modo. Mi metto alla guida.
Ma la città dei morti non si trova. Vaghiamo per un bel po’ in un deserto popolato di cespugli e arbusti stenti e radi, prima ad est di Alfalfa, cittadina di coltivatori, poi verso sud. Ogni tanto si vedono in lontananza piccoli branchi di cervi che Hae Myung chiama “wapiti”. Dopo una cinquantina di chilometri abbiamo incontrato 2 auto e 3 o 4 pickup.
L’indiano continua a mormorare: – «Io so che c’è».
Ai bivi o agli incroci di rettilinei che si perdono oltre l’orizzonte, ci indica nuove direzioni. Se l’auto non fosse fornita di navigatore non sapremmo più come tornare al Cascade.
Un animale molto veloce traversa la strada come una saetta. Non faccio in tempo neppure a toccare il freno che sparisce alla mia destra. Un coyote, probabilmente, o una volpe.
L’orizzonte si è fatto di un grigio plumbeo e si è avvicinato. Le nubi sono calate. Forse la tempesta arriverà domani, allora come chiamare la miriade di minuscoli fiocchi bianchi che turbinano nell’aria, ci investono con violenza ed imbiancano la strada. Per fortuna l’asfalto è particolarmente scabro e l’aderenza si mantiene ottima.
Tyee riprende il cellulare e chiama. Sembra chiedere informazioni. Quando incontriamo un cartello stradale mi chiede di rallentare, poi comunica al telefono quel che c’è scritto. Sembra litigare con il suo interlocutore e mi aspetto che sbatta il cellulare per terra da un momento all’altro.
Ad un certo punto mi grida di fermare. Bisogna tornare indietro. Compio una “U”. Procediamo per alcuni chilometri senza incontrare nessuno. In vicinanza dei rari bivi che incontriamo mi chiede di rallentare, deve leggere i cartelli che spesso sono soltanto consigli di guida. Una cerbiatta seguita dal suo cucciolo galoppa sulla destra.
«Attento!» – mi grida Guen.
La cerbiatta ha accelerato ed attraversa la strada proprio ad un paio di metri dal muso dell’Acura. Ora però anche il piccolo vuole attraversare e salta sulla carreggiata. Se freno lo investo in pieno. Schiaccio l’acceleratore e l’Acura con i suoi 200 e passa cavalli fa un balzo che supera il muso del cucciolo. L’impeto lo porta a sbattere col fianco contro lo sportello, un bang da brividi. Cade. Sullo specchietto retrovisore vedo la madre che torna indietro. Il cucciolo si rialza ed insieme trotterellano via perdendosi fra i cespugli. Sospirone. Ci fermiamo. Perfino l’indiano ha abbandonato la sua posa statuaria. Si liscia il mento.
«Ik’-tah!»
«Sì» – gli dice Guen – «Una bella mossa… non è questo che volevi dire?»
«Na-wit-’ka. Bravo.» – per la prima volta abbozza un sorriso di condiscendenza. Quando fa così l’ermetico ed il sostenuto mi irrita da morire.
Lo sportello è intatto. Il corpo del cerbiatto ha rimosso soltanto la polvere ed il nevischio che vi si era attaccato.
L’indiano si guarda in giro. Improvvisamente si mette a saltellare indicando una direzione.
«Yáh-wa, yáh-wa!» – strilla.
Addio ad altri 30 dollari. Però sono curioso di vedere dove diavolo Daniel Karlsson si recava a lavorare.
Ci troviamo in una posizione dominante ed al limite della visibilità, cioè a non più di 1500 metri, un po’ sulla destra dell’infinito rettilineo che si allunga davanti a noi, s’intravedono fra la nebbia file di pali, un grande muro, tanti alberi da far pensare ad un bosco ed alcune sagome di bassi edifici, seminascosti dalla vegetazione.
Man mano che ci avviciniamo si capisce che quegli edifici sono dei capannoni i cui tetti emergono al di là del muro, che a sua volta si trova al di là di una rete metallica molto alta. Non è tutto. Una spirale di filo spinato estesa a perdita d’occhio nelle due direzioni si interpone fa noi e la rete. Nella spirale, ad una trentina di metri l’uno dall’altro, sono piantati dei pali di legno portanti grossi cartelli.
Percorsi circa 200 metri dalla strada statale, ci troviamo davanti alla barriera di filo spinato.
Sui cartelli affissi ai pali leggo:
“Property of the U.S. Army”
“Off Limits – Trespassers Will Be Prosecuted”
“Proprietà dell’Esercito degli Stati Uniti”
“Gli intrusi verranno perseguiti a termine di legge.”
Che l’ingresso sia leggermente vietato lo avevo già capito. Non è soltanto vietato, è proprio militarmente sbarrato. Il filo spinato è di grosso diametro, avvolto in spire così vicine da non lasciar passare un coniglio e la rete metallica appare molto robusta e tesa da pali d’acciaio.
Ad un centinaio di metri oltre il primo sbarramento di filo spinato, si vede una fascia di terreno larga una ventina di metri, completamente brulla come fosse stata arata. Chiunque o qualunque mezzo provasse ad attraversarla si troverebbe senza riparo e quindi facilmente individuabile. La fascia sterrata appare delimitare un’area molto vasta di forma poligonale. La rete metallica corre proprio lungo la sua mezzeria. Oltre, si erge il muro di cinta, alto almeno 2 metri e mezzo, sormontato anch’esso da spirali di filo spinato. Non molto distante dal muro si leva alto un traliccio di quelli che portano la corrente ad alta tensione. I cavi elettrici sono mancanti ed un paio di isolatori pendono oscillando al vento.
L’entrata al complesso è sorvegliata da due torrette ai lati di un grande portellone d’acciaio, probabilmente a scorrimento.
Sulla destra del portellone il muro prosegue per un centinaio di metri, poi piega, accompagnato dalla fascia sterrata con la sua rete, formando un angolo ottuso. Alla sinistra del cancello invece il muro sembra proseguire dritto all’infinito.
Si sente solo il monotono fischiare del vento. Non c’è movimento. Il luogo è abbandonato, forse da non molto. Le scritte sono ancora nitide, il filo spinato è in buone condizioni, il legno dei pali non è invecchiato dal tempo.
«E questa sarebbe la tua città dei morti?» – domando rivolto a Tyee.
«30 dollari.»
«Aspetta un momento grande capo, tu hai detto che “uomo Carson” veniva qui. Come si entra là dentro per vedere se quel che dici è la verità?»
Per tutta risposta l’indiano si guarda in giro e fa cenno di attendere. È irritato, pesta i piedi. È come se aspettasse qualcuno che ritarda.
10 minuti ed un pickup piuttosto malandato si dirige verso di noi. Dopo un paio di sbandate viene a fermarsi con una lunga scivolata un po’ di traverso, ad una decina di metri dalla nostra Acura.
Ne scendono tre individui, uno vestito da indiano tradizionale con la sua brava fascia alla fronte e due trecce che gli scendono sulle spalle, mentre gli altri due sono vestiti da vaccari, altrimenti detti “cowboys”, il che sembra tutt’altra cosa. Forse non si sono lavati di recente. Portano al fianco dei grossi coltelli in guaine di cuoio. Uno tiene in mano una bottiglia. Tutti e tre vi hanno sicuramente attinto generosamente e si trovano in quello stato in cui ci si picca di ostentare una perfetta padronanza dei propri movimenti.
Tyee si rivolge a quello che sembra il capo, il più alto dei tre. Da sotto un cappellaccio nero e polveroso due occhi di ghiaccio sostengono lo sguardo irato di Tyee. A me sembra si trattino a pesci in faccia. Ad un cenno del capo tutti e 3 fanno l’atto di volersene andare.
Hae Myung s’intromette. Richiama all’ordine Tyee. Questi pur rimanendo impettito come un galletto, richiama i compari con toni concilianti.
«Bravo Big Chief Chinook.» – gli dice Guendalina – «Però hai rischiato di mandare tutto a monte, ti rendi conto?»
Dando le spalle ai tre individui le borbotta qualcosa all’orecchio. Mi dirà poi che si è arrabbiato perché dovevano trovarsi già sul posto. La polizia li sta cercando, ma lui ha ribattuto che non gliene frega assolutamente niente. Passa alle presentazioni.
«Lui è Tala» – Tyee indica il tipo col cappello nero – «Quello è Olowin» – ed è il portatore di whisky, il più indiano dei 3, che mi guarda come un sarto che prende ad occhio le misure – «E lui è Grande Falco Chayton. Lui sa come si entra in città dei morti.»
La mia preoccupazione cresce nel notare la fissità degli sguardi e le continue mosse per mostrare quanto riescono a stare dritti e attenti. E poi sento montare l’aggressività che mi sale dalle viscere quando vedo certi sguardi addosso a Guendalina.
«Allora!» – alzo un po’ la voce rivolto a Tyee – «Da dove si entra là dentro?»
«30 dollari.»
Sotto gli sguardi luccicanti dei tre gaglioffi prendo lentamente il portafoglio e finalmente faccio contento Big Chief Chinook.
«Adesso, vogliamo procedere?»
Tala, da sotto il cappellaccio nero mi fissa con sguardo torvo.
«50, 50, 50, amigo!»
Il vento fischia intorno e l’indiano stringe spesso le palpebre a causa dei granelli di nevischio che gli frustano il volto.
«10, 10, 10» – e non gli tolgo gli occhi di dosso.
Tala abbozza un sorrisetto.
«45, 45, 45. Ho detto.» – ribatte, però senza particolare enfasi.
Il gioco è piaciuto.
La mini-trattativa va avanti nel turbinio dei minuscoli grani di ghiaccio fino a che, constatata la mancanza di spiccioli, sbandiero un biglietto verde da 100 dollari e ripongo il portafoglio.
Tala fa un impercettibile cenno a Grande Falco Chayton. Nel muoversi questi inciampa in un sasso, vacilla di qua e di là. Per un pelo evita di cadere, senza dubbio per intervento di Manitù. Riguadagnato un aspetto altero mi si avvicina per prendere il centone. Senza arretrare glielo allontano. Dire che non temo una reazione sarebbe una grossa bugia.
«Tyee,» – mi rivolgo alla nostra guida – «tu sai già che ho una parola sola. Di’ a questi gentiluomini che è giusto che prima io veda il passaggio.»
Grande capo tentenna un po’, poi assume una posa autorevole e distaccata. Parla con fermezza a quegli sbandati.
Risultato positivo.
Tala e Grande Falco Chayton ci precedono, Tyee ed Olwin il portatore del prezioso liquido chiudono la fila. Sferzati dalla gelida brezza e picchiettati da un nevischio impertinente camminiamo fino ad incontrare dei binari tronchi che nascono dal niente, s’infilano sotto il filo spinato, attraversano la fascia sterrata traversando un varco nella rete ed entrano in uno stretto traforo attraverso il muro di cinta. Ancora una trentina di metri e la fascia brulla con la sua rete metallica piega allontanandosi per seguire il muro che procede obliquamente per almeno mezzo chilometro, così a occhio e croce. Lo sbarramento di filo spinato invece continua dritto fino a perdersi nella caligine. Finalmente Tala si ferma. Regge il cappellaccio con tutt’e due le mani perché le folate di vento stanno diventando una vera e propria tormenta.
Grande Falco Chayton mette le mani fra il filo spinato e come in un gioco di prestigio trae a sé una corda. Ci smanetta su per pochi secondi e tira. La spirale, divisa in due si ritira da una parte e dall’altra aprendo un varco. Ciò fatto si volge verso di me, braccio decisamente teso e mano aperta.
«Chik’-a-min» – lo sguardo è fermo ed anche l’altra mano, sul manico del coltello.
Credo proprio di dover cedere.
Ma c’è ancora una sorpresa. Tala mi guarda e punta un dito contro di me. La sua voce tagliata dal vento è grave.
«Mika kakwa klootchman. Mika wake tumtum» – o qualcosa del genere
«Che fa? Offende?» – domando rivolto a Tyee.
«Lui dice: “tu come donna, tu non pensi.”»
«Offende le donne. Che cacchio vuole?» – quell’indiano non lo sopporto.
Tala mette su un ghigno davvero irritante.
«Le-mah towagh, ah ah!»
«Insiste?»
«No.» – Tyee cerca di calmare le acque – «Lui offre torcia elettrica.»
Non ci avevo pensato e mi fa male.
«O. K. quanto costa?» – taglio corto.
«Mamook klahowyum»
«English, english!» – gli grido con rabbia. Vengo poi a sapere che ha detto di avere compassione di me. Meglio non l’abbia saputo subito.
«Ten dollars»
«Oh, finalmente! Ne voglio 3. Ce l’hai o no?» – gli mostro 3 dita.
Ce l’hanno, una per ciascuno.
Ci avventuriamo all’interno. Gli indiani non ci seguono.
Raggiungiamo la rete metallica. Osservando bene riesco a vedere dov’è tagliata. Non è facile aprirne i lembi anche perché è così rigida che è facile farsi male. In ogni modo, aiutandoci a vicenda riusciamo ad oltrepassarla. Sotto il turbinio del nevischio il terreno comincia ad imbiancarsi.
Raggiungiamo il solido muro in pietra. Ogni 10 – 15 metri vi sono dei cartelli con su strani segni.
Che mi prenda un colpo! Sono caratteri cirillici! Hae Myung interviene e legge compitando le parole: – «Neprokhidna Mezha – Ozbroyena Okhorona» – (Непрохідна Межа – Озброєна Охорона)
«Vale a dire?» – chiede Guendalina.
«Limite invalicabile – Guardia armata.»
«Russo?» – domando con poca convinzione.
«No.» – risponde Hae – «È… è ucraino!» – ne è meravigliata.
«Ma perché in ucraino?» – Guen è disorientata.
Qualcosa si mette a ticchettare nel mio cervello. Ad ogni buon conto, col cellulare mi metto a fotografare ed a tratti a filmare quel che attrae la mia attenzione.
«Venite!» – grido.
Costeggiando il muro, mi avvio di buon passo verso l’ingresso blindato, presumibilmente l’entrata principale a questa strana città dei morti. Ai due lati del portellone le scure finestre delle due torrette di guardia sembrano occhiaie vuote che ci guardano.
C’è una grossa targa di ottone posta a lato del portellone, ad altezza d’uomo. La voce di Hae Myung, ancora ansante scandisce: – «Simdesyat rokiv okrema povitryano-desantna bryhada».
«Cioè?»
«74esima brigata aerotrasportata. È intitolata ad un certo colonnello Oleksandr Bondar, presumibilmente un eroe di guerra.»
«E nella targa sotto?»
«Mhmm… fammi capire… Ah, ecco: “base militare di Staryi Saltiv”, nome di un luogo o città che significa “vecchio sale”, O. K.?»
Guarda un po’, mi dico, non è proprio il nome della base militare citata da alcuni giornali per degli strani avvenimenti?
A lato delle due targhe c’è un grosso emblema in ottone e smalto raffigurante un’aquila ad ali spiegate su delle spade e dei fucili incrociati. Fotografo tutto.
Alla nostra sinistra c’è un piccolo fabbricato, presumibilmente l’alloggio della guardia all’ingresso della base. Vi entro per un’occhiata. È completamente svuotato.
Il portellone non è completamente chiuso. Con un certo sforzo riusciamo in tre, a farlo scorrere sulle rotaie, ancora non del tutto arrugginite. Entriamo e richiudiamo lasciandolo come l’abbiamo trovato.
Bisogna stare attenti a dove mettiamo i piedi perché sembra di essere entrati da uno sfasciacarrozze. Vi sono pezzi di grossi pneumatici, rottami di automezzi, pale di elicotteri, pezzi di mobili da ufficio, sgangherate consolle e carcasse di strumenti elettronici sparsi ovunque. Sembra proprio roba lasciata indietro durante un saccheggio.
Come immaginato da quanto intravisto dall’esterno, sparsi fra alti arbusti o addirittura alberi che Hae Myung mi dice essere di ginepro occidentale, molto rari se non assenti da quelle parti, vi sono tanti capannoni contornati da veicoli che seppur in parte imbiancati dalla neve appaiono di quel colore tipico dei mezzi militari.
Sulla destra vedo i resti di quella che doveva essere una stazione di trasformazione, una vera e propria centrale elettrica per l’alimentazione della base. Subito accanto c’è un edificio con una targa che Hae Myung traduce in “Area Tecnica”. Sono curioso di sapere cosa nasconde, ma sono distratto dalle grida di richiamo di Guen. Mi dirigo verso di lei.
Man mano che mi avvicino cresce in me lo stupore. In breve mi trovo davanti ad una fila di una ventina di carri armati, che in seguito scoprirò essere dei T64 e dei T72, un tempo anche in dotazione dell’Armata Rossa, ma ci sono anche un paio di imponenti T84, di recente acquisizione da parte dell’esercito ucraino. Portano tutti un numero di identificazione e sembrano pronti ad entrare in azione. Più lontano vedo allineati degli elicotteri, alcuni troneggianti, sicuramente adibiti al trasporto pesante. Mentre sto fotografando ed a tratti filmando tutto quanto, Guen ed Hae mi raggiungono. Guen prosegue e si spinge fino a toccare quei veicoli. Forse vuole che le faccia una foto. Invece sembra li voglia prendere a pugni.
«Ehi!» – grida – «Sono finti! Sono di legno!»
Mi viene in mente il film “Capricorn One”, nel quale la NASA fa passare per vero un finto atterraggio di astronauti su Marte, simulando il paesaggio marziano all’interno di un’installazione nel deserto, a 500 km da Houston, Texas.
Procediamo all’interno di quell’improbabile selva di mezzi militari. Le strade s’incrociano, si diramano. In breve giungiamo ad un altro schieramento di mezzi.
Si tratta di mezzi anfibi di trasporto truppe, pesantemente armati, che in seguito ho potuto stabilire essere dei BT4 e BT3. Verifichiamo che siano finti. Ma non tutti lo sono. Quelli che sono veri, sono stati disarmati, probabilmente al momento dell’abbandono della base. Molti di questi sono smantellati, forse da saccheggiatori.
Entriamo in uno di quei capannoni.
È un sollievo sottrarci almeno temporaneamente alla veemenza del vento. La temperatura si sta abbassando ed i nostri indumenti cominciano a rivelarsi insufficienti. Accendiamo le torce elettriche.
Sotto la grande copertura ad arco troviamo quelli che dovevano essere gli alloggi degli effettivi. Non sono affatto male, baracche in legno e plastica che sembrano baite, brutte, ma robuste e di buona fattura. Le camerate non dovevano contenere più di 6 militari ciascuna. Anche gli ucraini si stanno adeguando agli standard americani. Chissà se avevano la televisione in camera? Bagni e docce sono ovviamente in comune, divisi fra quelli per gli uomini e quelli per le donne.
Contando le costruzioni simili valuto che sotto alla tettoia a semicilindro abbiano alloggiato fra i 700 ed i 900 effettivi – cioè circa un battaglione.
Esploriamo. Quanto alle pareti dei bagni, si vede che erano piene di scritte e di fumetti, perché parte di quelle è sfuggita ad un’azione di cancellazione con vernice a spruzzo.
Da uno di quei bagni per uomini, Guen mi chiama. La trovo che mi indica una scritta che a malapena si riesce a ricostruire con un po’ di fantasia. È in inglese:
“PRION? Better a sniff! When will this PRION carnival end?”
(“PRION? Meglio una sniffata! Quando finirà questa carnevalata?”)
«Che può significare?»
Finora non c’è stato tempo per metterla al corrente di tutto quello che ho saputo a Roma durante la sua assenza. Mentre riprendo tutto quanto, mi limito a dirle che ha fatto una scoperta importante e che poi le spiegherò. Meglio però se Hae Myung non vede quella scritta.
Ma poi ne trovo un’altra che, opportunamente completata, mi colpisce: “May be PRION has a leak – it will be hacked” (Forse PRION ha una falla – sarà attaccato)
Sento Guen che grida da un altro di quei bagni: – «Questa poi!»
La raggiungo.
«Guarda!» – sorride ammiccando.
È un po’ difficile riuscire a completarla. Alla fine leggo tossicchiando:
“If PRION makes you a monster, imagine what my object can do with you, darling!” (“Se PRION fa di te un mostro, pensa che può fare di te il mio oggetto, cara!”)
Naturalmente al posto di “object” c’ è ben altra parola.
Qualcosa si agita nella mia mente nel tentativo di venire a galla. Ma non c’è tempo per riflettere.
Usciamo. Insieme cerchiamo di valutare almeno approssimativamente quanti sono i capannoni dello stesso tipo sparsi nel bosco in una vasta area. Giungiamo alla conclusione che la finta base poteva ospitare fino a 3500 soldati.
Ci avviamo tutti e tre verso una palazzina in muratura non lontano da dove siamo entrati. All’ingresso una scritta, opportunamente tradotta da Hae Myung, ci informa che là dentro veniva ospitato il comando di brigata.
Come immaginato, non vi troviamo che uffici, tutti rigorosamente svuotati, molti con le porte mancanti. Le scritte rimaste sono tutte in ucraino e non mi provo neppure a decifrarle, ma filmo tutto. Se del caso ce le faremo tradurre.
Mentre Hae Myung è da qualche parte in esplorazione, Guen riceve un messaggio Whatsapp. All’orecchio mi sussurra: – «È Gianna. Oggi, alle 18.30, ora di Baltimora» – qui erano le 14.30, quando noi avevamo appena iniziato il viaggio verso la città dei morti – «Faceless si è spento. Il caso sarà archiviato come suicidio.».
Non riesce a nascondere una lacrima che scorre lungo la guancia. Lascio che poggi la testa sul mio petto e l’accarezzo.
«E ora, chi glielo dice a quella figliola?» – domando. I nostri sguardi s’incontrano e leggiamo l’uno nell’altro una fitta di amarezza. Anche se non lo abbiamo visto, ci eravamo affezionati all’immagine di quell’essere sfigurato dal fuoco, galleggiante in una vasca in ambiente sterile. Avrà lottato per sopravvivere o per morire?
In quel momento Hae Myung ci chiama. Ha trovato l’ingresso ad un locale interessante. Alla parete vicino allo stipite di una porta c’è una scritta: Riservato al Personale Autorizzato. La cosa strana è che sotto vi è la traduzione in inglese, la prima che troviamo là dentro – “Authorized Personnel Only”.
La porta è, o meglio, era blindata, perché è stata malamente scardinata. Entriamo. Un pianerottolo e poi una scala che scende in locali sotterranei. Una galleria di uffici. Su uno di essi una targhetta di ottone riporta il nome di Daniel Karlsson sopra alla scritta: “Expert Team Leader”. Gli occhi di Hae Myung luccicano. Guen le si avvicina e le mostra il messaggio ricevuto. La reazione mi sorprende. Hae si asciuga gli occhi, drizza la schiena, il suo volto si ricompone e mormora: – «Faceless… O.K., sono sicura che è decisamente meglio così.»
Dunque Karlsson lavorava qui al progetto PRION basato su tecnologie di Intelligenza Artificiale. PRION è la traduzione in inglese di “prione”, il fattore responsabile del “morbo della mucca pazza”, e cioè una proteina degenere capace di invadere il tessuto cerebrale. Mucca pazza, ovvero “Encefalopatia Spongiforme Bovina”, ovvero il morbo di Kreutzfeldt-Jakob. PRION è stato sviluppato in questa finta base militare perché diretto ad aggredire la vera base ucraina di Staryi Saltiv, nel dipartimento di Kharkiv, ai confini con la Russia e non lontano dalla neo-Repubblica Popolare di Luhans’k, dov’è in atto un conflitto territoriale armato, strisciante.
Come cambiano i tempi! Siamo passati dai virus veri quali armi biologiche a virus informatici. Quando saranno questi proibiti dalla Convenzione di Ginevra, come gli altri? Cosa deve accadere perché ciò avvenga?
Anche la Jankowska lavorava al progetto PRION, ma anche a qualche altra cosa. Karlsson e la Jankowska collaboravano, tuttavia Karlsson ha ceduto a lei qualcosa di extra, per una buona causa. Poi, venuto a conoscenza di un’aggressione al sistema militare della patria, è sparito dalla circolazione e poi si è suicidato in una maniera atroce. Che fine ha fatto la buona causa?
Usciamo di nuovo nel vento gelido. Ci dirigiamo all’ingresso della base. Quando davanti all’area tecnica decido di entrarvi, Guen cerca di scoraggiarmi. Si sta facendo buio ed il freddo è sempre più invasivo. La impietosisco chiedendoglielo per favore. Infondo so che lei comprende la mia curiosità.
Entriamo. Soliti ambienti vuoti. Vi sono i resti di quella che doveva essere la sala controllo della centrale elettrica. Tutte le consolle sono smantellate ed ingombrano il pavimento che neppure si riesce ad entrare.
Guen che è andata avanti ci chiama con una certa eccitazione.
Ne ha ben donde. Ha trovato quella che chiamerei la scatola cranica della base, il locale dove alloggiava l’unità centrale, quella che controllava l’intera base e che deve aver ospitato le versioni sperimentali di PRION.
La porta, anch’essa blindata, è aperta, ma quando tutto era in funzione, per aprirla si doveva digitare un codice su una piccola tastiera a lato della quale rimane soltanto uno scheletrino appeso a dei fili elettrici.
A lato della porta c’è una scritta che Hae ci traduce con “Unità Centrale di Calcolo” e sulla porta: Анато́лій (Anatoliy). Probabilmente, ci dice l’americana, trattasi di Anatoliy Volodymyrovych Skorokhod, campione di scacchi, matematico ed accademico ucraino. Un buon nome per un supercomputer.
Il locale è piuttosto vasto. Dentro vi troviamo solo un ammasso di rottami di scaffalature e residui di cavi a fibre ottiche tranciati malamente. Alle pareti vi sono alcune foto, planimetrie e schemi di ciò che doveva essere quando era ancora in funzione. Col cellulare riprendo in gran fretta quello che Guendalina man mano illumina con la sua torcia elettrica.
«Andiamo.» – sollecito – «Meglio se non ci facciamo sorprendere, tante volte alla tempesta in arrivo saltasse in mente di anticipare.»
Per tornare al varco nel filo spinato dobbiamo procedere contro un vento che si è fatto più aggressivo. I granelli ghiacciati graffiano il volto. Quando alla fine giungiamo sul posto troviamo una sgradevole sorpresa. Il varco è chiuso ed i tre delinquenti ci attendono al di là, piazzati a gambe larghe e braccia conserte come nei migliori film western.
Vogliono ancora 100 dollari. La tempesta e la luce calante non ammettono trattative, e meno male che ce li abbiamo. Io cerco di prenderla con filosofia, come si dice, ma mentre torniamo alle auto, vedo che Guen e Hae Myung parlottano fra di loro. Forse tramano.
La luminosità è notevolmente calata,
Poco prima di raggiungere Tyee e la nostra macchina, la mia metà mi dice in italiano che dobbiamo inscenare una litigata. Non so perché ma ovviamente mi fido. Comincia lei a chiedermi in prestito il mio cellulare perché il suo è scarico. Ce ne diciamo di tutti i colori, mentre tutti e quattro gli indiani stanno a guardare e ridono. Gli amici di Tyee finiscono di scolarsi allegramente qualunque cosa ci fosse nella bottiglia e la gettano via mancando di poco il loro pickup. Ad un certo punto un impercettibile segno di Guendalina mi fa capire che è il caso di terminare la lite. Facciamo la pantomima di rappacificarsi e ci abbracciamo commossi. Oh quanto mi dispiace ammettere di non riuscire neppure ad immaginare che cosa abbiano combinato quelle due!
Salutiamo malamente i tre furfanti e saltiamo in macchina. Incavolato come sono, parto sgommando di brutto e spero che qualche sasso smosso vada loro addosso.
Mentre Hae Myung si mette a raccontare a Tyee di non so quale avventura le era capitata, Guen, al mio fianco mi mostra di nascosto ciò che sta scrivendo sul cellulare: “Tra poco quelli chiameranno Tyee. Il pickup non parte. Spacciati per un bravo meccanico. Alzerai il cofano motore e smanetterai. Ci facciamo restituire i soldi. Dopo partirà.”
Finisco appena di leggere l’ultima parola che Tyee risponde ad una chiamata. I tre lazzaroni sono bloccati. Guen dice a Tyee delle mie favolose capacità. Torniamo indietro per i pochi chilometri percorsi. Li troviamo infreddoliti chiusi dentro al pickup.
Mi faccio avanti. Li caccio via. Entro nella cabina e provo a mettere in moto. Pur non essendo un esperto, dal rumore che fa il motore e da come si sono comportate le signore capisco che è stato semplicemente tappato il tubo di scarico. In qual modo lo vengo a sapere dopo: semplici fazzolettini umidificati da viaggio. Brave.
Scendo. Aperto il vano motore mi piazzo davanti al capo che si tiene il cappello contro il vento e gli faccio: – «Chik’-a-min – Chik’-a-min.» – sfrego il pollice con l’indice – «100 dollari, amigo.»
Il suo sguardo si fa torvo. Le mani corrono alle fondine dei coltelli.
Guen mormora delle parole all’orecchio di Tyee, mentre indica la nostra macchina, motore acceso, Hae Myung al posto di guida col cellulare all’orecchio.
«Ko-pet’!» – intima Tyee ai suoi compari. Segue un discorsetto al termine del quale, Tala, con mani tremati, con uno sforzo che sembra sovrumano, restituisce i cento dollari che ci ha praticamente estorti. Il suo cappellaccio viene portato via dal vento. Grande Falco Chayton si precipita ad inseguirlo.
Faccio finta di smanettare intorno al motore. Quando immagino che Guen, non vista, abbia stappato il tubo di scarico, rientro in cabina, giro la chiave ed il motore parte.
Mentre rientriamo a Redmond, dove giungiamo letteralmente esausti, vengo a sapere quel che modestamente avevo più o meno già capito, e cioè che nel momento critico, Guen ha detto a Tyee di avvertire i tre mariuoli che Hae Myung era a telefono con i ranger della contea e poteva comunicare da un momento all’altro targa e posizione del pickup – cosa che non era vera.
Lunedì 2 Dicembre
A Baltimora giungiamo giusto per l’ora di cena. Guen potrebbe dormire dalla sua amica, ma decidiamo di alloggiare in un hotel. Ci recheremo nel Bottom domani in mattinata. Guen non vede l’ora di mostrare ad Hae Myung ed a me i pericoli che vi ha corso. Io al Bottom ci andrò solo per curiosità, ma lo reputo una perdita di tempo. Inoltre, anche tutta la questione PRION, malgrado la trovi intrigante, anzi addirittura appassionante, la dovrò abbandonare. Stiamo esaurendo le risorse. Dobbiamo rientrare e smettere di arricchire a nostre spese gli albergatori americani e le linee aeree.
Martedì 3 Dicembre
Stamattina, tanto per rendermi le cose difficili, nella quinta pagina del quotidiano “The Baltimore Sun” trovo questo trafiletto:
“L’APTN (Associated Press Television News – primaria agenzia d’informazione statunitense – NdA), comunica che ieri, 2 Dicembre, nei pressi di una base militare nell’Ucraina orientale, non lontana da Luhans’k, durante un’esercitazione militare, un carro armato fuori controllo ha ucciso un soldato. Il responsabile della manutenzione dei mezzi militari si è dato alla fuga. Raggiunto, prima ha opposto resistenza, poi si è suicidato.”
Istantaneamente sovrapposta al trafiletto vedo comparire come un’epigrafe a lettere di fuoco: “PRION”. È un attimo, ma ormai mi è chiaro al di là di ogni ragionevole dubbio, come si dice, che quel tragico episodio è in qualche modo legato al fatto che il sistema informatico di quella base, che è sicuramente quella di Staryi Saltiv, è stato contaminato con un software altamente sofisticato, progettato realizzato e messo a punto nella finta base nell’High Desert dell’Oregon.
Noleggiamo un’auto, ma prima di recarci nel Bottom, Guen vuole che ci rechiamo tutti e 3 downtown per un po’ di shopping, cui vuole contribuire anche Hae Myung. 20 minuti di giri e rigiri prima di trovare un parcheggio e ci troviamo immersi nella asfissiante atmosfera natalizia americana, luci, belle figliole vestite, anzi semi‑vestite da babbo natale e via dicendo. Il contrasto con ciò che troviamo nel Bottom è impressionante.
Trovo il luogo più o meno come me lo ero immaginato in base al racconto di Guen. Oltre il rugginoso portello cigolante al vento, intravedo delle luci che però si spengono non appena usciamo dalla macchina. Entrati nel buio, rotto solo dalle nostre torce elettriche, Guen, incurante del fetore che aleggia e del pavimento sconquassato, si incammina decisa chiamando a gran voce Black Mama. Improvvisamente davanti a noi una luce disegna i contorni di un’imponente figura piazzata davanti all’entrata di una baracca, tempestata di figurette ed aggeggi somiglianti ad immagini dei riti Woodoo. È Black Mama.
Spegniamo le torce ed attendiamo.
«Guen-da-lina!» – grida la voce profonda della nera – «Ho riconosciuto la tua voce. Hai con te degli amici. Entrate!»
Ci fa accomodare su degli stracci per terra.
Davanti alla stufa c’è la vecchia vestita di stracci scuri di cui mi aveva parlato Guen. Chissà se si è mai mossa da lì.
«Dimmi subito chi è questa ragazza.» – ingiunge rimanendo in piedi a troneggiare su di noi.
«Si chiama Hae Myung.»
La nera rimane silenziosa e statuaria a fissare Guendalina dritta negli occhi.
Dopo non pochi secondi: – «Vuoi ripetere quel nome?»
Guen ripete scandendo.
«Lo sai che? Guendalina, io sapevo che saresti tornata da me con Hae Myung.»
Espressione meravigliata di Guen. Black Mama spiega che lei è una Mambo, una sacerdotessa, e che è amica dei Loa buoni, ma anche di quelli cattivi. Può parlare con un certo Papa Legba, una specie di San Pietro. Lui può farla parlare con gli spiriti.
«Hae Myung, devi sapere che in questo luogo aleggia lo spirito di un uomo che prima di presentarsi ai Loa mi ha detto di conoscerti. Devi dirmi qual è il suo nome.» – il suo sguardo severo cala sulla ragazza.
Con voce tremante Hae Myung le risponde: – «Daniel… Daniel Karlsson.»
«Dove abitava?»
«A Palo Alto, California.»
«Viveva con sua moglie Samantha?»
«No. Sua moglie si chiama Marion ed è separata da lui da anni.»
Grande sorriso di Black Mama.
«Vedo che avete con voi della roba.»
L’incantesimo è rotto.
Guen mostra due plaid, uno per Black Mama, molto grande, ed uno per quella vecchia accanto alla stufa. Raccoglie un cenno di approvazione. Poi c’è qualcosa per Bobby: una palla ovale ed un grosso modellino di pickup carico di dolci. Black Mama si alza e la accarezza. Guen fa cenno che anche Hae Myung è della partita. Così c’è una carezza anche per lei.
«Tu sei l’uomo di Guendalina, vero?» – finalmente si è accorta di me – «Ringrazio anche te. Sappi comunque che Papa Legba mi ha parlato di te. Mi ha detto che ti credi un detective, ma in realtà sei una strana specie di cercatore d’oro.»
Se lo dice lui… In ogni modo faccio un bel sorriso mentre annuisco.
«Dimentichi qualcosa, Guen.» – le dice Hae, toccandole un braccio.
«Ah, sì, Dromy!» – tira fori una bottiglia di whisky.
«Non gli farà bene.» – sentenzia la nera – «Ma è il destino che ha scelto per sé.»
Nel silenzio che segue si odono rumori indistinti che mi mettono addosso una certa inquietudine.
«Non temere, cercatore d’oro.» – mi apostrofa – «Sei protetto da Black Mama, che è protetta da Papa Legba. Capito?»
«Possiamo andare Black Mama?» – domanda Guendalina.
«Certo. Dopo che avrò consegnato ad Hae Myung l’amuleto fatto per lei da Maestro Ezekiel.»
Ciò detto prende un grosso fiammifero ed un mozzicone di sigaretta, che accende con gesti solenni. Sempre con movimenti ieratici va a rovistare fra delle scatole. Poi si rivolge ad Hae Myung intonando uno strano canto, esalando fumo dalla bocca in lente volute e accennando qualche passo di danza. Le porge qualcosa. Hae Myung la prende e le enormi mani di Black Mama si chiudono sulle sue per un tempo che sembra lunghissimo.
Infine la libera, getta il mozzicone ancora fumante e riassume un atteggiamento normale. L’atmosfera magica svanisce. Mi trovo di nuovo in una baracca dentro un immenso capannone abbandonato e puzzolente.
Usciamo e sono subito abbagliato dalla luce solare. La giornata è straordinariamente limpida. Quando ritrovo una normale visione metto a fuoco due auto della polizia piazzate davanti a noi, con tanto di corna rosse e blu. Appoggiato ad un parafango c’è un tizio alto, baffuto, in impermeabile, sigaro in bocca. Punta insistentemente Guendalina.
«Ma che bello, rivederti, Sparks!» – è lesta a precederlo – «Che diavolo ci fai qui? Speri ancora di beccare il Lupacchiotto?»
È ancor più antipatico di quanto immaginassi: sguardo ottuso, burbero, minaccioso, arrogante. E quei suoi baffetti che evocano le svastiche! Raramente una persona scatena improvvisamente la mia aggressività, ma questo qui lo prenderei volentieri a botte subito. Dico così per dire.
«Qualcuno qui mi ha detto che ti sei affezionata a questo posto, Guendalina Corelli.»
«Non sapevo di essere così popolare, Dick Oliver Sparks. Via, non essere cinico! Abbiamo portato qualche regaletto per Natale a dei poveracci… puoi controllare, se vuoi.»
Per tutta risposta sputa ostentatamente per terra.
«E chi ti sei tirata dietro? Chi è questo qui?» – mi indica senza neppure voltarsi verso di me – «E quella?» – stessa villania nei confronti di Hae Myung.
«Vedo che hai lasciato il senso umoristico all’inferno, Dos, ti chiamano così, vero?»
Certo Guen non è accomodante, ma forse fa bene a ricordargli che lo chiamano Dirty Old Skunk.
«Fai pure la spiritosa! Che ci sei andata a fare in California?»
«Che t’importa?»
«Vuoi rispondermi giù al comando o me lo dici qui e subito?»
«O.K. tenente. Questo è il mio compagno, Dagoberto de Carolis, padre dei nostri figli. È ingegnere e voleva fare una visita al dipartimento d’ingegneria alla Stanford. Là abbiamo fatto amicizia con Hae Myung, docente di Ingegneria Computazionale. Quando le ho raccontato di quando sono venuta qui con te… quel giorno che per poco non finivi nelle mani di quel delinquente… Ecco, ha insistito per vedere cos’è il dannato Bottom di Baltimora.»
«Non ha niente a che vedere con Faceless, vero?»
Sono sorpreso. Sulla sua capacità di fare dell’ironia non ci avrei scommesso un centesimo bucato.
«Certo che no. Comunque, sono al corrente, Sparks. È morto. Ma dato lo stato in cui era ridotto… un po’ di pietà mi dice che è meglio così.»
«Ma chi era? Chi era, dannazione! Io so che tu lo sai.»
«No, perbacco! Come vuoi che lo sappia?»
«Tu non mi conosci, piccola peste italiana. Tu non sai perché mi chiamano come mi chiamano. Stai ben attenta a quel che ti dico: se per caso m’imbatto anche in un pallido indizio che tu ed il tuo compare avete anche una lontana idea di chi fosse Faceless, io ti vengo a stanare fino in Italia… sì laggiù, a Roma. E sai quanto me ne frega del Papa! So dove abitate, so che siete dei ficcanaso e dei peggiori. Io non ti mollo e sai perché? Perché dentro di me c’è un diavolo che mi parla di te e del tuo amichetto. Dice che avete scoperto delle cose e che non le volete dire.»
«Mi metti davvero paura, Sparks. Mi ero fatta l’idea che fossi un gentiluomo.»
«Errore! Mi fido del mio diavolo perché qualcuno mi ha detto quello che siete stati capaci di combinare in passato. Voi non vi muovete a caso. Anzi, sai che? Ti credi furba, ma mi hai dato un indizio importante. Si chiama “Stanford University”, ed ora, quando Swanson…» – si volge verso uno dei suoi agenti – «avrà preso le generalità e tutto il resto di questa asiatica che vi portate appresso, io andrò là.»
Ciò detto getta con forza il sigaro per terra e si siede in macchina con un’aria esasperata che mi procura un friccico di piacere. Quel suo scagnozzo si avvicina ad Hae Myung col cellulare in mano per registrare i dati della ragazza. Quando ha finito, rientra in macchina e le due auto sgommano via con gli sportelli che sbattono per l’accelerazione, come nei più deleteri thriller Hollywoodiani. Saranno loro ad influenzare Hollywood o viceversa? Oggi come oggi non si sa mai!
In ogni modo sono preoccupato. Su Karlsson abbiamo soltanto un mozzicone di verità e, per quanto riguarda un nostro tornaconto potremmo dimenticarci di tutto, e tornarcene allegramente a casa. Però quello Sparks dei miei coglioni, ci ha creato un problema. Finché indagavamo spensieratamente in incognito potevamo stare tranquilli. Ma in questa storia sembra proprio siano coinvolti dei servizi segreti. Ora quello sbirro li può avvertire e quella è gente che non ama sapere che degli impiccioni stanno cercando di scoprire quello che hanno in pentola. E non è come se fosse uno di noi a non gradire, loro possono schiacciarti come un insetto e non rendere conto a nessuno. Loro hanno il Potere, quello vero, quello che li esime dalle conseguenze negative delle porcate che fanno.
Prima di tornare in albergo passiamo dall’amica di Guen. Durante il tragitto Hae Myung, seduta dietro di noi, tira fuori l’amuleto ricevuto dalle mani di Black Mama. Da quel che riesco a vedere sullo specchietto retrovisore, si tratta di una specie di notes. Si mette a leggerlo avidamente. Dopo un paio di minuti lo chiude e se lo stringe al petto.
Gianna è una tipa simpatica che vorrebbe ospitarci, ovvero stiparci tutti e 3 nella sua mansarda, ma qualcosa ci dice che prima riusciamo a decollare per Roma è meglio è. Saluti, baci, abbracci e ci avviamo verso l’hotel. Guen col cellulare comincia le prenotazioni per il primo volo per Roma. Di punto in bianco Hae Myung le chiede di prenotare un posto anche per lei. È determinata. Vuole recarsi all’Ateneo dove insegna Małgorzata Jankowska. Sarà completamente autonoma ed indipendente, non ci darà alcun fastidio, tiene a dirci. Guen però è non meno determinata nel dirle che ormai ci siamo affezionati a lei e che l’aiuteremo in ogni modo. Se poi sceglierà liberamente di essere nostra ospite… ecc. ecc.
Siamo all’aeroporto intorno alle 20.30. Proprio al momento dell’imbarco, un brutto figuro in impermeabile, lunedìappoggiato di spalle ad una parete, mozzicone di sigaro in bocca, agita appena una mano per salutarci. Che gli pigli un colpo!