Stesso Sabato 30 Novembre, più tardi.
Il racconto di Guen mi tiene sveglio… finché dura. Alla fine vengo colto da una stanchezza estrema. Guen mi accompagna alla camera dove mi butto sul letto vestito e subito mi addormento.
Verso mezzogiorno mi sveglia pian piano per il pranzo. Sono ancora un po’ intontito, ma va meglio. Faccio un’abbondante doccia, poi mano nella mano, ci rechiamo a piedi ad un ristorante lì vicino, l’I-hop. Il nome non mi piace tanto, perché pronunciato suona come “I hope”, cioè “spero”, ovvero, speriamo bene! Il cielo è di un luminoso grigio perla. Una brezza decisa, fredda mi sfiora la faccia. Finisce di svegliarmi.
Più che un pranzo facciamo uno spuntino, durante il quale la ragguaglio rapidamente sull’incarico ricevuto dallo studio legale Marianelli, sull’esistenza dei FIN e della improvvisa quanto misteriosa interruzione delle indagini sulla vicenda di Giorgio Pieveni accusato di aver tentato di uccidere la sua tutor Małgorzata Jankowska, genio informatico che ha tenuto corsi di ingegneria del software proprio alla Stanford. Come mi aspettavo si mostra molto curiosa riguardo alla setta dei FIN. Vorrebbe approfondire quanto sono riuscito a sapere dell’enigmatico progetto PRION e dell’ambiguo comportamento della Jankowska, ma la informerò durante il tragitto verso la Stanford.
Alle 14.30 siamo all’hotel, giusto nel momento in cui ci consegnano l’auto che Guen ha preso a noleggio. Ne ha scelto una piccola… per gli americani.
Malgrado le mie proteste, decide di liberarsi definitivamente del collare ortopedico con un gesto di esasperazione.
In 20 minuti la Chevrolet Sonic, percorrendo El Camino Real, ovvero la Statale Californiana 82, ci porta a Palo Alto.
Lungo tutto il percorso, una decina di chilometri attraverso una vasta pianura, non si esce mai dall’abitato. È la famosa Silicon Valley, nel bene e nel male sede di aziende e laboratori di ricerca sulle più avanzate tecnologie. Può essere pure che sia il luogo di nascita, pardon, di auto-creazione di TUM. Comunque, gli spazi sono così ampi che ti sembra di essere sempre sul punto di abbandonare la città. Solo quando giungiamo all’ingresso di Palm Drive, in direzione della Stanford, sembra uscire definitivamente dall’abitato per inoltrarci in un lungo, grande viale costeggiato da palme ed altri alberi rigogliosi i cui nomi dico sempre che al momento mi sfuggono, mentre so bene di non averli mai saputi. Il viale ci porta dritti all’ingresso dell’Università. Percorriamo il lato destro di un grande prato ellittico, dove numerose persone passeggiano, giocano, fanno footing, la maggior parte infagottate per il freddo, ma ve ne sono anche a torso nudo. Forse stanno facendo un corso di sopravvivenza. Cavoli loro! Finalmente giungiamo laddove Teng ci ha indicato esservi un parcheggio, a meno di 100 metri dall’ingresso al dipartimento di Matematica.
Tutto è vasto, verdeggiante ed ameno, anche se sotto un cielo grigio. L’edificio del dipartimento è pesante e prova ad essere imponente, circondato com’è da un ampio porticato con massicce doppie colonne, un po’ bassotte, come oppresse dal peso della struttura sovrastante, che arcate ampie, a tutto sesto non ce la fanno ad alleggerire. L’insieme sembra non riuscire a decidersi fra il moderno, il classico, il barocco. Insomma, lasciamo perdere, è americano e basta. Sotto il porticato le decorazioni natalizie ci sono, ma non sono pervasive.
Huan Teng, un cinese dagli occhi obliqui, zigomi sporgenti, capelli nerissimi, fisico atletico, è seduto impettito dietro la scrivania, le mani sulla tastiera di un portatile – un’estensione del suo io. È giovane, veste una tuta da ginnastica. Ha forse due, tre anni meno di me, mi domando se sia di origine mongola. Porta occhiali spessi, con una montatura nera, un po’ greve.
«Guendalina, suppongo.» – dice, rivolgendosi a lei – «Non doveva essere un colloquio a quattr’occhi?»
«Non l’ho mai detto. Questo è il mio compagno Dagoberto de Carolis.»
Solleva le mani dalla tastiera e la guarda fisso.
«In tal caso…»
«“A erre ci esse award, grazie Dan”, è scritto su una medaglia.» – lo interrompo.
Non prosegue. Guen mi gratifica con uno sguardo di approvazione.
Rimane silenzioso per un bel po’. Non si scioglie, rigido e impalato, sempre con le mani incombenti sulla tastiera:
«Avete parlato con Daniel? Avete visto la medaglia? Quando?»
«No. Sì. Quando cosa?» – risponde Guen mimando il suo atteggiamento in un modo che temo quello abbia a risentirsi.
«È ovvio. Se non avete parlato con Dan, il quando si riferisce al tempo in cui avete visto la medaglia.»
«E il dove?» – irriverente, impertinente, fortissima!
Teng si rilassa.
«O. K., sedetevi, prego.»
«Lei ritiene inspiegabile che possa aver visto quella medaglia, vero?»
«Non è del tutto corretto. Il punto è: perché, dopo aver visto quella medaglia, mi ha contattato per sapere chi è Dan?» – devo dire che invidio la sua logica.
Guen non risponde.
In attesa della risposta Teng si toglie gli occhiali, li pulisce scrupolosamente, poi se li rimette riaggiustandoli più volte con movimenti nervosi. Visto che non otterrà almeno per ora quella risposta:
«Il fatto è…» – ci guarda dritto negli occhi – «che abbiamo perduto il professor Daniel Karlsson un mese e mezzo fa, in un disastro aereo presso Apache Peak, nel Colorado. Il volo proveniva da Baltimora, diretto a San Francisco. Aveva fatto uno scalo imprevisto a Denver per anomalie al sistema di guida. Il tempo era inclemente, era già notte e… Apache Peak è una montagna alta oltre 13000 piedi…» – batté alcuni tasti sul computer – «più di 4000 dei vostri metri.»
«Il corpo è stato identificato?» – domando.
«Perché me lo chiede?
Mi sento colto in fallo. Infatti, perché dovrei chiederglielo?
«In certi casi è normale chiederselo…» – cerco di essere più neutro possibile. Devo stare in guardia, questo è un vero matematico.
Mi scruta. Vorrei nascondermi. Poi con pazienza mi spiega.
«Nessun resto anche solo apparentemente umano è stato identificato. L’aereo aveva ancora almeno 4500 galloni di kerosene nei serbatoi…» – colpetti sulla tastiera – «vale a dire circa 17000 litri ed è finito contro una parete praticamente verticale… immaginate voi cosa può essere accaduto. Le ceneri di 182 persone sparse fra rocce e neve in un’area di un miglio quadrato fra spuntoni di roccia ed anfratti. Forse il più terribile disastro aereo di questo secolo negli Stati Uniti.»
«Ora ricordo.» – affermo – «E…»
«Sì. Dan era indubbiamente a bordo.»
«O almeno così risulta dalla lista passeggeri.» – preciso.
«Ha qualche dubbio?» – di nuovo quello sguardo indagatore.
«No, no. Perché dovrei?» – Dagoberto, mi dico, stai facendo troppi errori!
Adesso qualche dubbio è venuto a lui. C’è della subdola curiosità nei suoi occhi.
Prosegue:
«Certamente risulta dalle carte d’imbarco depositate a Baltimora. Prima di imbarcarsi ha fatto un’ultima telefonata alla moglie, il 13 Ottobre.»
«Aveva figli, altri familiari?» – chiedo.
«Un figlio… no anzi 2, ma non li ho mai conosciuti. Ha un fratello, una sorella e credo che sua madre sia ancora viva… ma queste sono info personali e non capisco perché vi interessino.»
«Mah… così, banale curiosità.» – gli dico.
Mi scruta e prosegue.
«In ogni modo vi posso dire che con lui se n’è andato un genio della tecnologia dell’apprendimento. Una perdita davvero grave.»
«Però è da non credersi.» – commenta tranquillamente Guendalina.
«Cosa?» – domanda di riflesso Huan Teng.
«Ora rispondo alle sue domande, professore. Si dà il caso che qualche giorno fa, a Baltimora, quella medaglia me l’abbia mostrata una mendicate, incontrata ai margini di una di quelle aree depresse… come dite?»
«Una slum area, un ghetto.» – precisa Teng infastidito.
«Ecco. Quella donna diceva che attraverso quella medaglia dorata poteva prevedere il futuro. Era così… così ispirata nel parlarmene che mi ha incuriosita… o forse mi è piaciuto stare al gioco. Le ho detto che io non credo a quelle cose. Allora mi ha raccontato che più di un mese fa, ad un signore piuttosto alto e robusto, mentre le passava vicino, gli è caduta per terra quella che da principio pensava fosse una moneta d’oro o qualcosa di simile. L’ha raccolta praticamente al balzo. Mentre la stringeva nella mano l’ha sentita vibrare intensamente. Doveva avvertire quell’uomo di qualcosa. Ha subito richiamato l’attenzione dei passanti per farlo tornare sui suoi passi, ma non c’è riuscita.»
«Non ci credo.» – dichiara seccamente Teng.
«Padronissimo.» – gli rimanda Guendalina, mentre io sono addirittura scioccato dalla sua fantasia – «Nemmeno io credo… normalmente, a queste cose. Lei però non l’ha vista, quella donna, non l’ha sentita parlare, ma io sì. La sua voce era vibrante, ispirata. Mi ha detto che la medaglia le diceva che quel signore di nome Dan o Daniel stava andando a morire insieme a tante altre persone.»
Teng scuote la testa seccato.
«Così, mi vuol far credere che avete attraversato gli States da costa a costa per verificare… non è credibile.»
«Intanto siamo qua per stare qualche giorno a San Francisco.» – si volge verso di me per cogliere un mio cenno d’approvazione – «Poi, lei capisce, la Stanford è praticamente ad un passo… e lui,» – mi indica – «non voleva perder l’occasione per visitarla. È Ingegnere Aeronautico.»
Teng è ora perplesso. Si rilassa un tantino sulla sedia, poi riprende la sua posizione impettita e rigida. Lancia occhiate cariche di sospetto a Guendalina.
«E poi?»
«E poi, cosa? Ah, sì, quella voleva predirmi il futuro, ma a quel punto confesso che ho avuto paura. Adesso che ne abbiamo parlato, mi rendo conto che a livello subliminale, si è trattato dell’eco del disastro di Apache Peak. A me non piace che mi si dica se e quando sto per morire. In ogni modo, volevo prendere in mano la medaglia per vederla meglio, ma quella mi ha riso in faccia. Ho dovuto darle 10 dollari per fotografarla.» – armeggia sul suo cellulare e poi mostra le foto al nostro interlocutore.
«È quella.» – dichiara – «Dov’è avvenuto l’incontro con quella donna?» – di nuovo quell’atteggiamento inquisitorio che m’inquieta.
«Un momento, per favore… Mi lasci ricordare… Ecco, è stato ad un incrocio… fra Gay Street… North Gay Street, e North Avenue… Sì, poco prima di un semaforo.»
Teng compulsa velocemente la tastiera. Attendiamo. Gira il monitor del portatile verso Guen. C’è un’immagine di un incrocio stradale.
«Sì!» – esclama Guendalina – «È là che ho incontrato la mendicante. Può scorrere un po’ all’indietro lungo la Gay?»
Huan Teng esegue.
«Ecco, vede lì, poco prima del negozio di liquori? Proprio davanti a delle grate… Mbeh, ora si vedono delle persone di colore ferme a parlare… Comunque è proprio in quel punto.»
Io rabbrividisco. La mia metà si sta rivelando una professionista… che dico? un’artista della bugia!
«Mi scusi professore,» – intervengo – «naturalmente noi, prima di importunarla, abbiamo cercato se nel dipartimento vi fossero dei Dan o Daniel…»
«Oh, ma lui non insegnava qui, ma ad Ingegneria. Era docente di Ingegneria Computazionale.»
«Ora comprendo. E… qui da voi o dal prof Daniel, non è…»
«Dagoberto.» – Guen mi blocca, perentoria, mentre guarda l’orologio – «Il volo.» – poi, rivolta a Teng – «Mi spiace interrompere così improvvisamente, ma siccome poi lui non mi darà pace…» – si volge verso di me e mi stringe un braccio – «è meglio che facciamo quel giro dell’ateneo che volevi fare e che ora dobbiamo ridurre non poco, perché poi dobbiamo correre all’aeroporto, consegnare la vettura… D’accordo? La salutiamo professore e le siamo grati per averci ascoltato.»
Teng rimane un tantino interdetto, ma poi, sempre teso e serioso si alza. Ci salutiamo stringendoci la mano.
Guen pasticcia un po’ per non incrociarci, lo prende erroneamente per un braccio. Si scusa. Poi, anch’io sono contento di uscire da quell’ufficio dove l’atmosfera stava diventando per me insopportabilmente ambigua.
Ma non è finita. Fatti appena due passi la mia metà fa improvvisamente dietrofront, bussa alla porta dalla quale siamo appena usciti ed apre. Sento che chiede dove si trova il dipartimento di Ingegneria Aeronautica. Odo la voce irritata di Teng che la corregge: “Aeronautica ed Astronautica!”, poi aggiunge laconicamente di uscire da Matematica, prendere il viale a sinistra per 3 minuti fino all’edificio Durand.
Richiusa la porta Guen sfodera un sorriso enigmatico.
Al mio punto interrogativo:
«Lo immaginavo! Non ha perso un istante. Stava già telefonando.»
«Ma a chi?»
«Ascolta, tu non te ne sei accorto, ma quando ha pulito gli occhiali ha dovuto riaggiustarseli tenendo conto di qualcosa dietro le orecchie.»
«Sì, ho notato qualcosa anch’io…»
«Poi, quando ci siamo salutati, gli ho palpato il braccio destro. Sotto la manica della tuta porta un braccialetto con una specie di patacca. Ho capito bene, sai, quello che mi hai detto di quel Giorgio, della sua prof e della sua cinesina. Huan Teng è un FIN.»
«E allora?»
«Non sappiamo se è innocente come Giorgio Pieveni o è di quelli che stanno combinando qualcosa, come Małgorzata Jankowska… e tu stavi per parlargli di lei, vero?»
«Beh… Sì.» – stavolta è stata davvero più sveglia di me… ma io sono ancora sotto l’effetto del cambio di fuso orario, no?
«Ti sembra prudente?»
«Beh… No. Sappiamo ancora troppo poco di ciò che è il progetto PRION.»
«È comunque un progetto segreto.» – continua Guen imperterrita – «Ora, dopo la nostra incursione qui, è probabile che Teng ci segnali come persone da sorvegliare, ma soltanto come un suo vago sospetto.»
«Già. Se gli chiedevo della Jankowska, sarebbe stato peggio. Ma, dimmi, come hai fatto a parlare così precisamente di quel posto dove hai incontrato la mendicante immaginaria?»
«Mi sono fermata a quel semaforo quando sono tornata nel Bottom per incontrare il barbone. Mi aveva colpito il nome di quella via, North Gay Street, ed il degrado della zona. Semplice.» – risponde mentre consulta la mappa dell’ateneo e si dirige decisamente verso il dipartimento d’Ingegneria Computazionale.
Sotto una finissima, intermittente pioggerellina, incrociamo molti studenti in bicicletta. Mi accorgo allora che di biciclette disponibili ve ne sono ovunque. Verrebbe voglia di approfittarne, ma il dipartimento è ormai a pochi passi da noi. È un edificio più sobrio di quello di Matematica. Come tutti quelli che abbiamo visto, è circondato da ampi porticati, ma qui le colonne sono eleganti, le linee sono semplici, gradevoli.
Malgrado sia Sabato pomeriggio, sotto il porticato vanno e vengono non pochi studenti e professori.
Mi fermo.
«Stiamo andando in cerca di informazioni su Karlsson, vero?» – le chiedo.
«Sì. e allora?»
«Non si può sempre improvvisare.» – sostengo – «Vediamo se riusciamo in breve tempo ad avere qualche notizia su di lui… qualcosa sul suo lavoro, qualche pubblicazione di riferimento, in modo da avere una ragione per occuparci di lui, capisci?»
Nessuno ci nota mentre ce la prendiamo con i nostri smartphone, dato che quasi tutti intorno, anche mentre camminano o parlano con altri, sembrano prendersela con i loro.
Scopriamo una lista di pubblicazioni del professor Karlsson.
Le espressioni più ricorrenti riguardanti algoritmi e software di Intelligenza Artificiale, sono:
“Apprendimento profondo”,
“Apprendimento veloce”,
“Apprendimento supervisionato”,
“Reti neurali artificiali”
ed altre amenità composte più o meno dalle stesse parole che mi danno immediatamente la misura della mia sconfinata ignoranza in materia. Ma adesso, dovendo improvvisare, proveremo a nasconderla quell’ignoranza, facendoci scudo di quelle espressioni.
Entriamo sotto il porticato. Varchiamo una porta e a caso imbocchiamo uno dei corridoi che si aprono davanti a noi. Cominciamo a chiedere. Dopo un paio di buchi nell’acqua riusciamo a trovare gli uffici della facoltà di “Computational and Mathematical Engineering”.
Guen ferma un giovane nero che gira da quelle parti con uno zaino. Gli chiede dove si trova l’ufficio del professor Karlsson.
«Vuol dire dove si trovava.» – replica il ragazzo, per niente sorpreso.
«Perché, se n’è andato?» – chiede Guen.
«Sì, se n’è proprio andato. Non è più tra i vivi. Non lo sapevate?»
«No. Siamo dispiaciuti.» – continua Guen.
«Non siete americani, mi sembra. Mhmm… spagnoli?»
«Italiani.» – rispondo – «Siamo sorpresi… potremmo parlare con qualche suo collaboratore.»
Si gratta la testa. Poi: – «Oh, ma certo! La coreana! Hae Myung.» – le sue labbra si piegano appena in un risolino – «Se c’è, è nella penultima stanza dietro di voi, infondo… la 189, mi pare. Comunque guardate le targhette.»
Ci salutiamo.
Sulla porta al 189 la targhetta dice: “Hae Myung – Advanced Unsupervised Learning Machines – Assistant Professor” (Macchine Avanzate di Apprendimento Senza Supervisione).
Non manca un piccolo volto di Santa Claus che occhieggia attraverso un ramoscello di vischio. Da Teng non v’era alcun simbolo natalizio.
Hae Myung è un’americana di origine coreana, più o meno della mia età. Non è bella in senso classico, ma il suo volto è illuminato dall’espressione di una forte personalità, attraente, interessante ed anche simpatica. Non porta alcun braccialetto che assomigli a quello dei FIN, né vi sono micro-apparecchi acustici dietro le sue orecchie ben visibili, ornate da piccoli piercing.
Il suo volto incupisce quando nominiamo Daniel Karlsson e confermiamo di sapere dell’incidente aereo.
«Lo conoscevate?»
«Non di persona.» – rispondo – «Ho visto alcuni suoi lavori… ero soltanto curioso di conoscere i luoghi in cui lavorava e… trovandomi qua…»
«Ti occupi di paradigmi di apprendimento?»
«Non direttamente. Faccio consulenze per aziende che vogliono acquistare software. Ed oggi non si può non occuparci di Intelligenza Artificiale, apprendimento profondo, eccetera.»
«Siete francesi?»
«No, italiani.»
«Di quale città?»
«Abitiamo a Roma.»
«Ah! C’è una bella università da voi! Sicuramente conosci il dipartimento di Ingegneria del Software.»
Guen mi fa strani cenni che non riesco a capire. Ma io, finalmente lieto di togliermi dall’imbarazzo replico che certamente conosco quel dipartimento, come no!
«Allora è probabile tu conosca o abbia almeno sentito parlare di una polacca: Margherita Jankowska.»
Mi limito ad annuire.
«Margherita Jankowska…» – ripete ed i suoi occhi diventano di ghiaccio – «È stata qui… Si crede un genio quella. Figuratevi che pretendeva di insegnare a Dan lo sviluppo di reti neurali che massimizzano l’apprendimento hebbiano.»
«Ah mbeh!» – balbetto.
«E Dan… lui, non è stato capace di dirle che casomai era lei a dover imparare… Dan era un uomo incredibilmente gentile, sensibile.. un uomo di valore, anzi, di valori, se capite quel che voglio dire. Insomma, era decisamente sprecato per quella polacca!»
Ci risiamo. Ho già sentito un altro paio di volte quell’appellativo in cui l’aggettivo è usato impropriamente, vale a dire non come ci si riferirebbe all’altrettanto polacca Madame Marie Curie, 2 volte premio Nobel.
Nel caso di Hae Myung, “innamorata” è chiaramente riduttivo, mi domando se hanno avuto una relazione piena o soltanto platonica. Non me la sento di chiederlo.
«Insomma,» – prosegue – «quella è una divorziata. Ha un figlio piccolo in Polonia. Il giudice lo ha affidato al padre, pensate! Oh, ma non è stato questo il problema.»
«No?» – domando, mentre Guen aggrotta la fronte.
«No… Ma non so se posso parlarne con voi.»
«Non occorre, Hae.» – le dice Guen mentre le sfiora un braccio – «Scusa se ti domando questo: il dottor Teng…» – attende un segno di assenso – «ci ha appena detto che il professor Karlsson prima di partire da Baltimora ha chiamato la moglie…»
«Sì, certo, Dan è sposato con due figli…» – esita a lungo, è a disagio – «Comunque vivono separati da più di 3 anni… forse lui l’ama ancora… insomma l’amava ancora. Ma lei no.» – conclude.
«Capisco.» – afferma Guen – «E i figli?»
«In pratica li ha tirati su lui, aiutato dalla famiglia di suo fratello e da quella di sua sorella. Fa… faceva parte di una famiglia piuttosto in vista qui nella Silicon Valley… industriali di componenti per avionica. Comunque i figli sono ora abbastanza indipendenti… credo siano inseriti in qualche società di famiglia, ma se fosse stato per sua moglie… non l’ha mai capito, lei. È una donna in carriera, di quelle “arrampicati e uccidi”. Non solo non poteva comprendere la sua generosità, per esempio nell’aiutare gli altri… Ah, come ha fatto per esempio con John Teng, venuto con una borsa di studio dalla Cina.»
«John? Non è Huan Teng?.» – obietta Guen.
«Molti cinesi che vengono qui, vogliono in qualche modo americanizzarsi. Il suo nome ufficiale è Huan… Huan Teng, ma gli piace che lo chiamiamo John. Quanto al suo americano, ci ha stupito tutti. È perfetto, slang e tutto. Ma torniamo alla generosità di Dan. Devo dire che non ho certo approvato, quando ha sicuramente elargito, è il caso di dirlo, un intero software a… a…»
«Alla Jankowska.» – suggerisco.
«A lei. E gliel’ho detto, chiaro e tondo.» – lascia andare le braccia in segno di esasperazione.
«Era un software importante? Sai di cosa si trattava?» – chiedo.
«Non me lo ha voluto dire.» – fa una lunga pausa – «Da un po’ di tempo stava lavorando ad un progetto di cui non poteva parlarmi. Forse è una coincidenza, ma più o meno nello stesso periodo ha dovuto stranamente mettersi a studiare l’ucraino. Non il russo, ma proprio l’ucraino. Io… beh, come posso dire? Per curiosità? Ho voluto studiarlo anch’io. È stato poco più di sei mesi fa… così abbiamo frequentato il corso insieme.»
Ucraino, non russo. Strani campanelli si mettono a suonare in sordina nella mia testa. Vado avanti.
«Non si è mai lasciato sfuggire una parola di quel lavoro, magari qualcosa…?» – insisto.
«No. È stato leale con me. Mi ha detto chiaramente che lavorava per dei servizi a livello nazionale. Roba top secret.»
«Stavi dicendo che ha generosamente concesso del materiale tecnico a Małgorzata Jankowska…» – suggerisce Guen.
«Sì, volevo dire che è uno dei più bei ricordi che ho di lui: il suo volto, il suo sorriso, la sua serenità, quando mi ha detto: “Fidati, Hae. È per una buona causa.”… ed è anche il ricordo che più mi fa male… perché proprio a quella?» – i suoi occhi si inumidiscono.
Trae una salvietta da un pacchetto e si asciuga gli occhi.
«Ma sono sicura che l’ultima telefonata prima di salire su quell’aereo mortale l’ha fatta a me.»
Attendiamo in silenzio.
«Era per salutarmi… in un modo… Come se avesse un presagio mentre anch’io avvertivo una vaga inquietudine, un presentimento… Ma, ditemi, avrei potuto impedirgli di salire su quell’aereo?» – ci guardiamo in silenzio – «C’era una grande tristezza nella sua voce. Mi ha fatto pensare alla malinconia, o era avvilito, non saprei, timore? dolore?… Prima di partire per Baltimora, ha ricevuto una lettera che poi ha distrutto. L’ha aperta di fronte a me. Ero lì per caso e credo non immaginasse cosa ci fosse scritto, perché dopo averla letta si è abbandonato sulla sedia ed ha mormorato delle parole che ricordo molto bene: “Una nostra base militare è sotto attacco informatico.” – ha strappato la lettera in mille pezzi ed ha aggiunto: “Sono chiamato a Baltimora… dobbiamo fermarli.” Ma più che stimolarlo, quella notizia lo ha annientato. Non era il suo modo di reagire…»
Ci guarda insistentemente. Qualcosa lavora nella sua testa. Nei suoi occhi si alternano interrogativi. E divenuta improvvisamente fredda, circospetta.
«Un momento! Avete detto che siete stati a trovare Il professor Teng, prima di venire da me.»
Non neghiamo.
«Allora conoscete l’unico lavoro noto anche all’estero che Dan ha firmato assieme a lui.»
È chiaro che legge lo smarrimento nei nostri volti.
«Non lo conoscete. Mhmm… cos’è che vi ha portato da Teng? Perché vi interessate tanto a Dan Karlsson? Non siete affatto degli informatici di alto livello! Vero?»
«È così.» – confermo.
«Allora cosa avete a che fare con lui? E con la Jankowska? È lei che vi manda? Con chi sto veramente parlando? Forse dovrei chiamare la sicurezza.»
Detto questo si reca dietro la scrivania e mette le mani sul telefono. Ma, a fronte della nostra immobilità, si blocca, ci guarda dritti negli occhi. Ci concede un’ultima chance.
«Non siamo inviati della Jankowska. Non apparteniamo ad alcuna organizzazione.» – dichiaro cercando di essere il più pacato possibile, malgrado il pulsare delle mi tempie – «Né reclamiamo alcun titolo per essere qui a far domande sul professor Karlsson. Ma abbiamo delle ragioni. Se hai un attimo di pazienza proveremo a spiegarti.»
Le mie parole l’hanno un tantino calmata… ed incuriosita.
«Sediamoci.» – invita.
Ci sediamo. Lei comunque mantiene una mano sul telefono.
Guen non ha mai avuto bisogno d’essere incoraggiata a parlare. Le dice subito che abbiamo mentito quando abbiamo detto che il nostro interesse per Karlsson riguarda la sua attività accademica. Le rivela la nostra attività in patria e dichiara che siamo lì soltanto su iniziativa personale, legata a due eventi importanti che potrebbero essere legati fra loro. Uno riguarda Małgorzata Jankowska, ricoverata in coma farmacologico a seguito di una brutta caduta per le scale dell’università romana. L’altro è che mentre lei la settimana scorsa si trovava al Johns Hopkins Hospital in Baltimora, è stato ricoverato in codice rosso un grande ustionato irriconoscibile. Poi spiega che come le succede spesso, è entrata in competizione con un tenente di polizia, un certo Sparks, che stava indagando su quella persona. Seguendo una propria intuizione è giunta ad ottenere, all’insaputa di Sparks, le foto di un medaglione. Gliele mostra.
Dopo averle osservate, Hae Myung si abbandona sulla sedia. A voce bassa, quasi un sospiro le chiede di com’è venuta in possesso di quelle foto. Senza enfasi Guendalina le racconta del barbone, del suo ambiente, di come le abbia mostrato la medaglia e di come sia stato testimone degli avvenimenti di quel Sabato mattina in cui, prima dell’alba, quello che in ospedale hanno chiamato Faceless, lo stesso da cui il barbone afferma di aver avuto la medaglia, ha cercato di suicidarsi sotto il viadotto della Jones Expway, cospargendosi di benzina e gettandosi nel fuoco.
«È ancora vivo? In che stato è?» – sussurra la ragazza – «Come è potuto accadere? Chi c’era al posto suo sul volo da Baltimora?»
Lascio trascorrere del tempo, poi provo a parlarle.
«È molto probabile, ma non del tutto sicuro, che Daniel Karlsson sia la persona di cui abbiamo parlato. Se così fosse potrebbe essere accaduto che al momento della partenza per San Francisco abbia rinunciato a tornare a Stanford per motivi che non sappiamo e che abbia ceduto la sua carta d’imbarco a qualcuno.»
«O. K… Ma poi?»
«Qualcosa lo opprimeva.» – provo a continuare – «Qualcosa di grave, difficile da sopportare… Così, quando ha saputo del disastro aereo nel quale non solo non si è salvato nessuno, ma le vittime erano del tutto irriconoscibili, ecco, ha colto l’occasione per sparire, figurare morto. Si è poi tolto dalla circolazione, mescolandosi a dei clochard.»
«Fino a quando non ha più sopportato di vivere.» – conclude Hae.
«Già. Deve essere qualcosa di tremendo, di insanabile che lo ha spezzato.» – concludo.
Rimaniamo in silenzio, ciascuno pensando di leggere negli occhi dell’altro la spiacevole convinzione che il buono, il sensibile, il generoso Daniel Karlsson abbia compiuto qualcosa di cui si è poi pentito amaramente.
«Si assentava spesso?» – chiede Guendalina.
«Certamente. Siamo molto collegati con altri ricercatori e anche se ultimamente la moda è di incontrarci in videoconferenza, la partecipazione fisica a simposi, convegni e seminari non è venuta meno.»
Guen rovista nella propria borsetta e ne trae una tessera tipo carta di credito.
«Sai se Dan praticasse il tiro con l’arco?» – le chiede mentre gliela mostra.
Sono sorpreso. Allungo il collo per sbirciare. Mentre Hae Myung se la rigira più volte fra le mani, riesco a cogliere alcune parole:
“Cascade … Archery Center … Bend … Oregon”
«Ah, sì… purtroppo.» – sul suo volto cala una tristezza definitiva – «L’hai avuta da quel clochard?»
Guen annuisce.
«Questa tessera è come una coltellata alla speranza che quello che chiamate Faceless non sia Dan… sapete, non riesco ad abbandonarla, quella speranza.» – i suoi occhi s’inumidiscono.
Rispettiamo il suo lungo silenzio.
Hae Myung sa dei FIN? La risposta è che ormai quasi tutti alla Stanford sanno dell’esistenza della setta. Di seguaci ve ne sono tanti ci dice Hae Myung. Molti lo sono per una sorta di conformismo o addirittura di snobismo, come fosse uno dei tantissimi club studenteschi o di docenti, ma ne ha conosciuti anche di veramente convinti. Si sono formate delle comunità FIN che vivono appartate in villaggi auto-gestiti, dove pregano per un certo TUM, in attesa di una vita futura oltre la morte.
«Qui negli States e specialmente da noi in California,» – ci spiega – «vi sono numerose sette, chiese e gruppi religiosi che si ispirano alle più disparate dottrine.»
«Ne sono al corrente, anche se genericamente» – le dice Guen.
«I FIN sembrano ora sulla cresta dell’onda.» – continua Hae – «Ogni tanto qualche fanatico di questa o quella setta si suicida o fa cose stravaganti, ma è di stanotte la notizia che proprio un gruppo di FIN vicino a Los Angeles pare abbia compiuto un suicidio collettivo.»
«Me lo aspettavo.» – commento – «Scommetto che è per terminare la vita biologica per continuare a vivere quella… come la chiamano?… Ah, del loro Digital Self.»
«Sarebbe?» – domanda Hae.
«Il DS è un io direi simile a quello che viene chiamato Avatar, che vive, si fa per dire, in un computer o in rete. Non che riesca a capire esattamente come.» – rispondo.
«Quante persone si sono suicidate?» – chiede Guen.
«Si parla di una sessantina, forse 70. Credo siano ancora in corso accertamenti. Siamo comunque lontani da quanto avvenne a Jonestown, in Guyana nel novembre del 1978. Si suicidarono più di 900 americani, inclusi oltre 200 bambini, se ben ricordo.»
«Suicidio, ma anche efferato omicidio!» – mi scappa detto.
«Pensate!» – esclama Guen mentre picchietta sul suo smartphone – «Ecco qua: era una setta che si definiva “Le Persone del Tempio”, ma si trattava di un movimento laico. Si sono immolati per la gloria del socialismo!»
«I fanatici sono fanatici e basta. Non importa di cosa.» – affermo – «Scusate, ma mi interessa sapere se Daniel Karlsson seguisse o no i FIN.»
Hae Myung non ne è sicura. Indossava dei piccolissimi apparecchi acustici, ma aveva dei problemi con l’udito… o così le aveva fatto credere. Talvolta portava un braccialetto al braccio destro, ma non crede fosse il monile dei FIN.
Riguardo alla Jankowska, ci informa che durante il suo soggiorno alla Stanford, non l’aveva mai vista indossare un braccialetto al polso destro, né usare auricolari. Dan evitava se possibile di parlare dei FIN. Secondo lei, lui stesso non credeva fossero persone serie.
Intanto cresce in me la curiosità per quella tessera di cui Guen non mi ha parlato. Chiedo di poterla esaminare.
È intestata a Daniel Karlsson quale socio del Cascade International Mounted Archery Center, sito nella contea di Deschutes, nell’ Oregon, e precisamente nella o nei pressi di Bend.
«Bend?» – domando.
«Sì.» – mi spiga Guen – «Mi sono informata. È una cittadina dell’Oregon, a circa 500 miglia, cioè 800 chilometri a nord di Stanford. Comunque il club è ad una ventina di chilometri dalla città, in una zona desertica, detta “High Desert”»
«Non mi dire che andava apposta a tirare d’arco a 500 miglia da Stanford.» – domando rivolto alla ragazza.
«Certo che no. Comunque non era a Bend che si recava. Gli prenotavo i voli per Redmond una cittadina distante dal Cascade più o meno quanto Bend. A Redmond ci rimaneva al massimo una notte. Normalmente so che lo prelevavano direttamente all’aeroporto per portarlo da qualche parte nel deserto.»
«Naturalmente» – continuo – «non sai cosa andasse a fare in una zona desertica, lui, un professore di Ingegneria Computazionale… impegnato in un progetto segreto.»
Ecco che sulle labbra di Guen comincia a nascere uno di quei sorrisetti che mi fanno incazzare, perché significano che io sto dicendo o facendo esattamente quello che lei, senza dirlo, vuole che io faccia… o dica.
«Vero, non lo so.» – mi risponde Hae – «So solo che tornava con aria seria e preoccupata. Scusate se cambio argomento, potete dirmi quali sono i vostri programmi?»
Guen ed io ci guardiamo. Il suo sorriso si fa impertinente.
«Torniamo a Roma.» – rispondo, per ripicca. Il sorrisetto cattivo ce l’ho io, ora.
«No… veramente… nno.» – mi blocca Guen – «Sai Hae, come ti ho detto soffro di una curiosità al limite del patologico e lui non è da meno. Credo che faremo un salto a Redmond.»
«Immagino che poi tornerete direttamente a Roma.»
«Dobbiamo fare una piccola sosta a Baltimora. Devo salutare l’amica che mi ha ospitato e riprendermi alcune cose che ho lasciato a casa sua.»
«Sapete cosa?» – Hae è molto decisa – «Anch’io voglio fare una capatina al Cascade Center. La vostra curiosità è contagiosa. Poi voglio anche andare a Baltimora, al Johns Hopkins… e al Bottom. Non posso non andare là. Quando saremo a Balt spero mi direte come si fa ad arrivarci.»
No problem. Anzi, le dice Guendalina, saremo felici di averla con noi. L’accompagneremo noi al Bottom.