#iorestoacasa – A nostra somiglianza – Racconto a puntate per chi rimane a casa per l’emergenza sanitaria
Giovedì 28 Novembre
Damiano dorme ancora, ma sembra sia senza febbre. A colazione, con gli occhi ancora socchiusi, in fase di pregustazione del cappuccino fumante, capto un breve annuncio di Rai News 24: “In una base militare ucraina, nel dipartimento di Kharkiv, un soldato ha sparato ad un ufficiale con la pistola di ordinanza ferendolo mortalmente. Poi ha rivolto l’arma contro di sé. Non si conoscono i motivi della sparatoria.”
I miei occhi si spalancano, giusto in tempo per cogliere il saluto di Arianna in partenza per la scuola, con in groppa un grosso zaino come fosse un esploratore abbandonato dai portatori. Abbozzo un saluto, mentre sento dentro di me qualcosa come: “E due!”. Poi sulla spiaggia fra il mare inconscio e la consapevolezza cominciano a frangersi le domande. È la stessa base di Sabato scorso? L’origine della segnalazione è la stessa? Cosa significano queste comunicazioni di così scarso interesse fuori dall’Ucraina? Che senso hanno i fatti che riportano?
Non lo so. Vengo trascinato via da quella spiaggia mentre subentra l’idea, probabilmente covata fin da ieri sera, che sia opportuno avere un altro colloquio con Giorgio.
Comunico al ragazzo che stavolta il colloquio sarà confidenziale. Me lo concede soltanto nel tardo pomeriggio. Deve studiare. Spedisco all’avvocato il filmato del colloquio di ieri, ma non lo informo del colloquio con Shu Wen, almeno per ora.
Con una bellissima telefonata, la zia Clarissa m’informa di essere rientrata ieri sera. I ragazzi ne saranno contenti… figuriamoci io! Già sto pensando come e quando prendere un aereo per Baltimora.
Per il momento devo stare al chiodo, come si dice. Rico viene a fare il suo rapporto. Niente di significativo. Ha individuato 3 appartenenti ai FIN, ma non è riuscito ad ottenere alcunché di utilizzabile. Per la prima volta lo sento piuttosto frustrato, tuttavia mi garantisce che continuerà ad indagare sul campo ed in Internet.
Sono appena le 10 e già ho guardato l’orologio 5 o 6 volte. Sta diventando un tic irrefrenabile. Ci sono ancora 6 ore prima che cominci l’udienza là a Baltimora, ammesso che siano puntuali. Continuo a dirmi di stare calmo che tanto prima delle 5 non riceverò notizie.
Alle 5 e un quarto arriva la telefonata, proprio mentre sto guidando per andare all’appuntamento con Giorgio.
“Sorprendentemente”, così mi dice Gianna, Guen è stata prosciolta da ogni accusa. È libera e fra un’oretta mi chiamerà lei stessa, una volta espletate le formalità. “Sorprendentemente”. Che vuol dire?
Mi salta subito in mente di annullare il colloquio con Giorgio, temo di non avere la lucidità per condurlo in maniera professionale. Ma c’è l’orgoglio. Già. Non so cosa fare. Le due istanze giocano a ping‑pong nella mia povera testa, non risparmiandosi tiri mancini. D’un tratto mi trovo sotto le finestre di casa Pieveni. Scuoto la testa, mi faccio forza.
Chiarisco subito a sua madre Elena che il colloquio è sì informale, ma dovrà avvenire senza lei fra i piedi… pardon, presente.
Giorgio non indossa gli auricolari né il FIN-bracciale.
Gli domando se l’organizzazione tollera il fatto che un affiliato non indossi i gadget prescritti. La risposta è che si può fare. L’unica conseguenza è che viene rallentata la carriera, se così la si può chiamare. E in questo momento, tiene a precisare, l’avanzamento nella gerarchia dei FIN è l’ultima cosa che lo preoccupa.
«Puoi avere accesso ai dati trattati da TUM?»
«È una domanda fuori dalle righe. Non posso rispondere.»
Gli chiedo se ha parlato al telefono con la sua ragazza. No, si sono scambiati delle mail mascherando i rispettivi indirizzi IP per non farsi tracciare. Bravi. Insisto per sapere il vero motivo di quel maledetto alterco e perché le ha gridato di stare “molto attenta”. Niente da fare. Continua imperterrito a non cambiare versione.
Risponde ad una telefonata.
Sulle prime appare sollevato. Mi guarda con intenzione e fa un cenno come dire “Glielo dico dopo”. Termina con «Grazie, avvocato. Arrivederla.»
Riattacca ed improvvisamente il suo volto scurisce. Nel suo sguardo leggo dello smarrimento, una preoccupazione che assomiglia alla paura.
«Sono prosciolto da ogni accusa.» – lo dice come se gli avessero comunicato la morte di un amico.
«La professoressa è emersa dal coma?» – domando.
Scuote la testa.
«Allora?»
Mi fa cenno di attendere. Deve pensare.
Dopo almeno un intero minuto di silenzio si decide.
«Il commissario, quel Baroletti, ha chiamato l’avvocato Marianelli per dirgli che, d’accordo col procuratore, ha deciso di sua spontanea volontà di prosciogliermi da ogni accusa per mancanza di una qualunque prova a carico… “di sua spontanea volontà”. Mhmm… Lo ha rimarcato… in un modo… Il commissario ha precisato che “è stato tecnicamente appurato in tutta sicurezza che si è trattato di incidente a tutti gli effetti”… tutte quelle parole… Poi ha aggiunto che ha in mano la liberatoria firmata dal giudice.»
Lascio scorrere ancora parecchi secondi in silenzio.
«Meglio così.» – affermo, mentre mi alzo, contento che se telefonasse Guen, io sono affrancato da questo impegno.
Lui non si alza. È disorientato, sbigottito.
Gli porgo la mano per salutarlo. Non contraccambia.
Mi avvio. Quando sono alla porta il mio cellulare suona.
Che sia già Guen? Annaspo per trarlo dalla tasca. È il Marianelli. Mi chiede di preparare una nota spese perché il caso è chiuso.
Attendo che il ragazzo dica alla porta di aprirsi.
«Aspetti…»
Torno sui miei passi.
«C’è qualche problema?»
«Sieda, prego.» – il suo sguardo è fermo.
«È evidente che il commissario Baroletti, quell’uomo così tronfio e sgradevole, smanioso di incriminarmi, è stato costretto a mollare il caso.» – la sua voce è ferma – «Dunque, il procuratore stesso è stato costretto.»
«Nonostante tu sia colpevole?» – insinuo
Scuote la testa.
«Non l’ho spinta. Il problema è un altro.» – dichiara con tranquillità.
Si alza, va alla porta, le dice di aprirsi. Abbraccia sua madre.
«Hai sentito?»
Lei fa cenno di no.
«Hanno capito che sono innocente. Sono libero, mamma.»
«Tuo padre ne sarà felice! E Lia anche. Non l’avevo mai vista così preoccupata!»
Si abbracciano ancora, poi, molto educatamente le ordina di starsene lontana altrimenti andremo a parlare fuori da qualche parte. Mentre lei se ne va, la sentiamo chiamare la figlia.
«Ho fatto ricerche su di lei… cioè su voi della Omega Investigazioni.» – mi dice mentre si risistema dietro la scrivania – «Potreste essermi d’aiuto più di altri. Mio padre vi ricompenserà.»
Attendo silenzioso.
«Non possono essere stati i FIN. Qui in Italia non hanno il potere sufficiente per costringere la magistratura a mollare in una situazione come questa. Il fatto è che questo incidente proprio non ci voleva… per nessuno. Quella mia buttata: “Stai attenta, stai molto attenta!” è irrevocabilmente agli atti e sospetto che qualcuno, un potente, voglia sapere perché ho gridato quelle sciagurate parole.»
«Chi e perché?»
«Chi, non lo so proprio.»
«E il perché?»
«Ancora non lo so di preciso.»
«Ma qualcosa sai.»
«Oddio! Se almeno non fosse stata così spudoratamente altezzosa!»
«Lascia perdere. Vai al punto.»
«Margie lavora anche ad un progetto estraneo a quello di TUM.»
«Ah!»
«Sono riuscito ad entrare nel suo sistema operativo… Non mi guardi così. Non me ne vergogno… Sono uno specialista.»
«È comunque un reato.»
«No, se uno non pubblica i dati visionati o raccolti.»
«Ma ora tu lo stai facendo.»
«Aspetti un attimo. Intanto è una comunicazione privata e confidenziale. Si tratta della mia sicurezza. Pochi discorsi, accetta di sapere o no?»
È chiaro, si sente in pericolo. Non posso non aiutarlo.
«Dunque.» – spiega – «Shu Wen le ha parlato dei programmi dei FIN. Impiegano l’AI ad un notevole livello. Sembrano O.K. Potrebbero anche funzionare, almeno in parte. Shu Wen ci crede davvero… area di attacco ipotalamica e tutto il resto.» – non trattiene un sorriso – «È talmente ingenua! Io sono più sullo scettico. So io i trucchi e gli imbrogli che si possono realizzare con i programmi informatici, soprattutto con quelli che imparano da soli! Penso abbia sentito parlare di deep fake»
«“Falsità profonda”?»
«Un modo molto moderno ed efficace di contar balle. Si tratta di programmi AI capaci di costruire video anche in 3D di una persona. In quei video gli possono far dire qualsiasi cosa, o compiere qualsiasi azione e, se sono ben fatti, non si riesce a distinguere la persona vera da quella falsa. Ho visto il mio Io digitale… ecco, da specialista non posso non avere qualche dubbio.»
«Cioè?»
«Che sia una deep fake.»
“Meno male”, mi dico.
«Comunque veniamo al punto.» – continua – «Margie ha contribuito non poco allo sviluppo di TUM, ma da almeno 5-6 mesi sta collaborando a qualcosa di diverso, forse all’insaputa dei FIN, o magari d’accordo con qualcuno ai massimi livelli dell’organizzazione. Il progetto si chiama PRION. Anch’esso si avvale dell’Intelligenza Artificiale, naturalmente.»
«Prova ad azzardare un’ipotesi.»
«Tutto quel che sono riuscito a sapere riguardo strettamente al progetto TUM, è che dietro vi sono almeno un paio di organizzazioni basate negli Stati Uniti.»
«Nomi?»
«Sigle di comodo, tipo…» – consulta il computer – «… Ecco: “BY2008”, “HMG2011” , per esempio.»
«E riguardo a PRION?»
«Stessa zuppa, ma con sigle diverse.»
«L’obiettivo?» – gli chiedo.
«Non è facile saperlo. Non ho trovato un modo per entrare nel codice sorgente, nel kernel, cioè nel nocciolo del programma. Però sono riuscito ad entrare negli archivi dati, quelli cui ha accesso Margie. Come penso lei sappia, questi programmi di AI se ne vanno in giro per la Rete a raccogliere valanghe di info di tutti i generi. Ho redatto una statistica dei dati raccolti.»
«Ebbene?»
«Insomma sembra che PRION abbia voluto diventare soprattutto un esperto di Psichiatria, Psicoanalisi, Psicologia Comportamentale e stranamente anche di Storia contemporanea.»
«Vale a dire?»
«Due sono le direttrici della ricerca di PRION. Una riguarda l’esperimento di Zimbardo.»
«L’esperimento alla Stanford University negli anni 70?» – domando.
«Sì, quello noto come Esperimento Carcerario di Stanford.»
«Ah, capito. E la seconda direttrice?»
«Riguarda un’approfondita ricerca sull’ascesa al potere di Hitler in Germania, quella di Stalin in Russia e gli stermini di massa nei lager e nei gulag.»
In un istante mi balena nella mente un nesso al quale non avevo mai pensato. Lo esprimo a voce alta.
«Forse si può affermare che quanto avvenuto nei lager nazisti e nei gulag staliniani sia un enorme Esperimento Carcerario di Stanford. In fondo questo PRION si muove su un’unica direttrice di ricerca!»
«Forse. Ma potrebbe esserci qualcosa in più.»
«Se ben ricordo,» – continuo – «ciò che sbalordì Zimbardo e che poi cercò di spiegare, fu che dei bravi ragazzi, di buona famiglia, una volta assunte le vesti di secondini si siano in pochi giorni trasformati in carnefici, vessatori e torturatori di compagni ed amici.»
«Giusto.» – conferma Giorgio – «Ed è il motivo per cui più o meno 30 anni dopo, nel 2003, Zimbardo fu chiamato ad occuparsi dei problemi della prigione di Abù Ghraib, a Baghdad, occupata dagli americani, dove si erano verificate torture e violenze inaudite, fino all’omicidio, contro i prigionieri di guerra. Crudeltà perpetrate da soldati ed ufficiali americani fino a poco prima normali padri di famiglia.»
«Vero. Ero al liceo. Organizzammo una manifestazione di protesta» – poi proseguo – «Forse Zimbardo cercava di capire proprio quel che era accaduto in Germania ed in Russia, dove con l’avvento di Hitler e, rispettivamente di Stalin, persone normali, intellettuali, padri di famiglia, perfino alcuni fra gli stessi prigionieri dei campi di concentramento, nominati capi o guardiani, hanno improvvisamente infierito su uomini donne, vecchi e bambini con orrende cattiverie… per non parlare del “vernichtung”, lo sterminio sistematico, naturalmente.»
«Già,» – interviene – «in quali circostanze e perché un interruttore nascosto dentro di noi scatta e ci trasforma da persone dabbene in mostri che compiono atrocità come normale amministrazione?»
«“Eichman a Gerusalemme” – la banalità del Male!» – mi viene di dire.
«Raccontato da Hannah Arendt» – conferma Giorgio
«Ed il progetto TUM? Secondo te, non sta procedendo nello stesso modo?»
Si carezza il mento a lungo.
«Sì e no.» – riprende – «Anche TUM ha ammassato info in ambito psichiatrico, storico, ecc., ma PRION, nei campi che abbiamo detto, ha ammassato info in maniera largamente preponderante, direi ossessiva, rispetto ad altre categorie di dati. Inoltre, per quanto sono riuscito a capire, TUM non ha raccolto informazioni classificate, come invece ha fatto PRION. Di solito quelle hanno password pressoché inattaccabili.»
«E ciò farebbe supporre…»
«Che a PRION, fin dall’inizio, siano state concesse autorizzazioni molto particolari.»
«Ne parli come fossero persone… PRION… TUM.»
«È perché alla fine si comportano come se avessero una volontà propria… prendono decisioni… formulano ipotesi… pensano e comunicano. Comunque, Dagoberto, sarò egoista, ma m’interessa di più sapere perché qualcuno ha deciso che non gli importa se ho detto la verità sulla caduta della mia prof e stoppa l’indagine… mi ha fatto un piacere, ma mi ha messo addosso una gran paura.»
«Calma.» – gli dico – «Vediamo di capire. A me sembra che sia TUM che PRION stiano cercando di dare risposte agli interrogativi posti da Zimbardo e dalle tragedie umane del XX secolo. Secondo i FIN, correggimi se sbaglio, TUM ha già dato una risposta: c’è un difetto annidato profondamente nel cervello umano, e sta cercando a modo suo di ovviare. Al contrario, PRION, visto che possiede autorizzazioni che in genere concedono alti funzionari o governativi, o militari, o, peggio, dei servizi segreti, immagino che il suo obiettivo sia esattamente l’opposto, cioè utilizzare le sue conoscenze ai danni di qualcuno.»
Mette i gomiti sulla scrivania e si prende la testa fra le mani.
«Probabile.» – approva – «Manipolare esseri umani per…»
«Per trasformarli in pazzi criminali. O qualcosa di simile.»
Rimaniamo in silenzio ciascuno con i propri pensieri per un bel po’.
«Hai un’idea di come posso o meglio, possiamo aiutarti?» – gli chiedo.
«No. Non ho ricevuto la benché minima minaccia.»
Provo a fare un’analisi della situazione.
In primo luogo consideriamo che la Jankowska è grave, ma non gravissima. Il suo coma è assistito, quindi potrebbero farla riemergere in tempi non lunghi. Allora, perché il procuratore, prima di scagionare Giorgio, non ha atteso qualche giorno per raccogliere la testimonianza della maggiore interessata? Non sarà per interrompere qualsiasi indagine sul caso, cioè che si vada a ficcanasare nelle attività della Jankowska né in eventuali coinvolgimenti del suo studente?
Se il proscioglimento non è partito dai FIN, chi l’ha determinato? Chi ha sufficiente potere per interferire con le prerogative della magistratura? Risposta: i sevizi segreti di uno Stato. Di quale Stato? Giorgio ha scoperto che dietro al progetto PRION vi sono organizzazioni americane. CIA? NSA? Il Pentagono? Tutta gente rispettabile! Come Bruto e Cassio! Suggerirebbe Shakespeare attraverso il suo Marcantonio.
Intanto, come minimo lo Stato italiano deve aver dato l’O.K.
Concludiamo che il progetto PRION è dunque protetto dallo Stato italiano, magari senza avere la possibilità di chiedere il perché, visto che sono coinvolti gli Stati Uniti, un alleato troppo potente per permettersi di contrariarlo.
Cosa potrebbero volere da Giorgio? Prima di tutto vorranno sapere cosa sa di PRION. Per questo potrebbero acchiapparlo e farlo parlare. Se ammette possono provare a comprarlo. Se non ammette o rifiuta di collaborare, visto che non saranno stati delicati con lui, dovranno poi sopprimerlo. Non sarebbe carino, e neppure privo di conseguenze spiacevoli per loro, ma potrebbero farlo.
Domando se ultimamente i suoi computer siano stati violati da qualcuno in Rete. Ne ha solo uno, un portatile. Ogni giorno qualcuno ci prova, mi dice, ma non ci riesce perché ha installato un firewall di sua invenzione che funziona alla grande. Può determinare chi ci prova? No, troppo complicato. In quale altro modo potrebbero trovare evidenza di ciò che ha scoperto sull’attività della Jankowska e quindi di ciò che lui sa di PRION?
Dovrebbero avere il suo computer a disposizione per un certo tempo così che dei professionisti possano decrittare i suoi file.
«Cancella tutto quello che hai trovato su PRION.» – consiglio – «Poi ricondiziona il computer in uso come se fosse quello di un bravo bambino. Magari con qualche piccolo sgarro degno di un hacker curioso, ma non di un vero ficcanaso…» – aggiungo.
«Insomma… mi sta chiedendo un’opera d’arte!» – per la prima volta da che siamo lì sorride – «Ci vorrà del tempo.»
«Ormai diamoci del tu. Quanto tempo?»
Qualcuno bussa. Giorgio comanda alla porta di aprirsi. Una ragazza entra con foga. È Lia. Mi saluta appena. Il suo atteggiamento pare proprio quello della sua coetanea, nonché mia figlia Arianna, quando è infuriata.
«Te l’avevo detto di non darle retta!» – esordisce.
«Lia, ti prego! Pensavo fossi venuta per dirmi quanto sei contenta.»
Ma lei non molla, probabilmente anche lei ha capito che c’è qualcosa che non va.
Segue un alterco con uno scambio così rapido di botte e risposte difficile da seguire.
Quel che riesco a capire è che in qualità di sorella e per il semplice fatto di volergli bene, gli rimprovera di aver ceduto alle fisime di una ragazza dagli occhi a mandorla ed il volto da verginella, che lo ha spinto in un’avventura molto pericolosa, solo e soltanto per soddisfare la propria stupida curiosità.
Se ne va cercando di sbattere la porta che resiste ai suoi tentativi, fino a che il fratello comanda che si chiuda.
Si allontana con un classico: «Adesso sono cazzi tuoi!»
Silenzio.
«Gelosia.» – sembra giustificarsi il giovanotto.
«Sono d’accordo. Però sembra avere le tue stesse preoccupazioni. Meglio se mi racconti tutto.»
Esita. Lo guardo dritto negli occhi.
«Va bene.» – respirone – «In ogni modo Shu Wen è già coinvolta per il fatto di essere la mia ragazza. Sa 4 o 5 lingue lei, ma non capisce una parola di polacco e la Jankowska lo sa bene. Così talvolta parla tranquillamente a telefono con qualcuno nella sua lingua. Shu mi ha confidato che le dà un fastidio da matti. Così un paio di mesi fa le ho suggerito di usare il cellulare per registrarla, che poi avremmo trovato un modo per sapere.»
«E lo ha fatto.»
«Sì. È così che abbiamo scoperto che parlava con un suo connazionale e che sta lavorando a qualcosa di diverso dai progetti FIN. Allora, io, in disaccordo con Lia, mi sono messo ad indagare e sono arrivato al progetto PRION.»
«Tutto qui?»
«No, c’è dell’altro. Non ti sto a ripetere i dettagli, ma sembra proprio che abbia convenuto con quello con cui parlava a telefono, apparentemente di passaggio a Roma, la consegna di una micro‑flash card.»
È proprio l’era dei polacchi, nella quale mi trovo!
«Quando?» – chiedo.
«Mbeh, sarà… una decina di giorni fa.»
«E brava prof!» – esclamo.
«Già.» – ammette Giorgio mentre si liscia il mento – «Margie lavora per i FIN, poi in segreto si mette a sviluppare o comunque a contribuire al progetto PRION, qualunque cosa sia, poi lo cede sottobanco a dei suoi compatrioti… che forte!»
«Un corno!» – sbotto – «Volevi sapere chi ti ha fatto scagionare? Ecco, quelli che hanno dato il via al progetto PRION! Se riveli quel che mi hai appena detto alle persone sbagliate, aumenterà il numero di persone che ti cercano, magari per farti fuori e Margie» – calco su quel nome – «correrà il rischio di essere ammazzata… che forte, eh!»
Rimane in silenzio.
«O.K.» – taglio corto – «Da qui in avanti, è meglio che ci vediamo soltanto se strettamente necessario. Però dobbiamo poter comunicare senza passare attraverso telefoni o cellulari.» – gli porgo un biglietto da visita – «Stasera, verso le 8, ordina a tuo nome delle pizze a questo numero. Non chiamare né me né altro numero della Omega. In extremis, mandami un SMS… vediamo un po’… mi dici che ho dimenticato il mio tablet qui da te.»
Guardo l’orologio. Si sono fatte quasi le 7. Preso da tutti quei ragionamenti mi ero distratto dall’attesa di una telefonata da parte di Guen. Ed è subito ansia.
Ci salutiamo frettolosamente.
Quando con l’auto esco dal cancello della palazzina per immettermi in via Falda, il mio sguardo, disastrosamente addestrato dalle ormai tante situazioni critiche in cui mi sono cacciato negli ultimi anni, coglie l’immagine di un tizio dall’altra parte del marciapiede che fa la tipica mossa di chi sta spiando e non vuol darlo a vedere. È iniziata una sorta di sorveglianza del ragazzo. Era prevedibile, ma fra prevedibile e sicuro c’è una differenza: adesso bisogna gestire la paura e non è cosa da poco.
Quanto alla questione delle pizze, bisogna si sappia di Andri. È un ragazzo albanese, da me raccattato nel quartiere di Torpignattara nel corso dell’avventura che ho narrato in “Codice Moloch”. Ora è adottato da, e vive con, la zia Clarissa Paneri in Pesce, cioè sposata con l’amico commissario, tanto per rinfrescare la memoria. Andri, ormai quasi 16enne, studia e a sera consegna pizze a domicilio.
Arrivo appena in tempo per consegnargli un mini walkie‑talkie da inserire nel cartone assieme alle pizze che saranno ordinate da Giorgio Pieveni. Il gemello, ovviamente lo tengo io. Si tratta di oggetti che stanno nel palmo di una mano, facilmente occultabili in un taschino o altro, ma hanno un raggio di azione dell’ordine dei 10 km. La sede della Omega Investigazioni, ovvero la mia abitazione, è a 6-7 km in linea d’aria da quella di Giorgio e più o meno alla stessa distanza dall’Ateneo di via Salaria.
Finalmente alle 7 ed un quarto circa – a Baltimora sono le 13 e un quarto – sento la cristallina voce di Guen. Sembra pimpante. Ai miei grugniti di preoccupazione mi dice di stare tranquillo, ha pranzato con un tenente di polizia che la stima moltissimo, tanto che ora la accompagna perché lei deve intervistare un testimone.
Lui, un poliziotto, accompagna lei ad intervistare un testimone? Com’è possibile una cosa del genere?
È troppo complicato per spiegarmelo, mi dice. E perché ti accompagna? Semplice: si stanno recando in una zona diciamo non proprio turistica della città. Ai miei successivi grugniti mi dice di stare su con la vita, che presto ci vediamo a Roma. Sento poi che borbotta qualcosa in inglese, immagino rivolta al tenente, qualcosa come «Don’t mind him, Oliver, he is always so.» – “Non farci caso, Oliver, fa sempre così.”
Arianna e Damiano, che conoscono l’inglese, hanno seguito la conversazione. Il sorrisetto appena accennato sulle labbra di Damiano lo trovo irrispettosamente ironico. Arianna invece è più esplicita:
«Adesso, fossi in te, papà, mi rilasserei. C’è Oliver che veglia su di lei.» – neppure sorride, la piccola canaglia. Mi sento prudere le mani.
Dopo cena faccio una prova di comunicazione con i walkie‑talkie. Funzionano perfettamente. Con l’occasione avverto Giorgio che è sorvegliato da qualcuno sotto casa. Che deve fare? Niente. Meno fa e meglio è. Ma si dia daffare a condizionare il computer, perché presto in un modo o nell’altro glielo soffieranno.