Lunedì 17 Dicembre
Mio padre usava dire: “Per i grulli non c’è Paradiso”. E non è certo in paradiso che mi sento stamani. Mi son svegliato col terrore del terremoto. Invece era il buon Rico che è entrato nella roulotte per svegliarmi. Il sonno svanisce, la paura no e non credo sia paura del terremoto.
È tardi. Abbiamo appuntamento con Baxtalo alle 9 e sono le 9. Il fatto è che dopo il teatrino c’è stata la cena. Ben presto si è rivelata una sfida a chi reggeva meglio lo slivoviz o, in alternativa la vodka o, in alternativa un dannato distillato di non so che cosa, roba per lo meno sui 50 gradi. Il tutto al suono ininterrotto di 2 violini azionati da due sedicenti Lautari. Almeno questo è tutto ciò che ricordo.
Durante la notte il campo Rom si è coperto di almeno un palmo di neve. Il cielo è bianco, in compenso la temperatura non è così rigida come ieri sera quando ha sfiorato i 10 sotto zero.
Quando giungo alla roulotte di Baxtalo trovo un Topolski ingrugnato nero, attaccato al cellulare, dal quale sembra ricevere ordini stomachevoli. Baxtalo neppure lo guarda. Aspira voluttuose boccate da un grosso sigaro. Mi saluta con un cenno. Keti è tranquillamente seduta in disparte.
Terminata la telefonata Topolski mi guarda come se fossi io il colpevole della sua esclusione dall’azione.
«Finito?» – gli domanda brutalmente Baxtalo – «Veniamo al punto. E voi due sedetevi.»
Fa un cenno a Keti. Questa gli porta un cofanetto. Dentro vi sono dei gioielli d’oro di fine fattura, impreziositi da piccoli diamanti, smeraldi, rubini.
«Questi sono i nostri biglietti d’ingresso alla base.» – consulta l’orologio – «Quelli sono in esercitazione fuori nella campagna da almeno 4 ore ed hanno ancora più di 3 ore di mazzo da farsi. L’esercitazioni all’esterno della base termineranno fra le 12 e le 12.30. La fortuna è dalla nostra parte. La neve ha sicuramente reso le cose più faticose, sopratutto per la truppa. Giungeremo dopo il rancio, cioè poco dopo le 2. Ho preso accordi con la mia amica Polina Kaminska, comandante del terzo battaglione aerotrasportato, Viktor Tsarok. Ha ottenuto il permesso dal generale di brigata di fare entrare il teatro itinerante dei Lautari per intrattenere soldati ed ufficiali. Tanto era previsto sarebbero per lo più rimasti stravaccati nei loro alloggi fino a sera.»
«Faranno entrare tutte quelle roulotte e carri che ho visto?» – obietto.
«Molti dei loro carri rimarranno fuori dalla base. Da quel che ho capito si esibiranno al coperto, nell’auditorium. In pratica sarà uno spettacolino quasi di sole donne. I militari si assieperanno là e rimarranno inchiodati a guardare. I teatranti si stanno già preparando. La carovana è piuttosto lenta. Giungeranno là verso le 3 del pomeriggio»
«Non potremo usare i cellulari. Come comunicheremo fra noi? Il sistema delle comunicazioni è totalmente gestito dal computer centrale…» – obietta Rico.
«Da Anatoliy.» – completa Baxtalo – «Lo chiamano così, ho sentito.»
Improvvisamente ricordo quel nome visto sull’ingresso al locale dell’unità centrale di calcolo della finta base nel deserto dell’Oregon.
«Comunicheremo con questi.» – continua il raya, mentre da un cassetto trae 3 walkie-talkie, non piccoli come quelli utilizzati da noi a Roma, ma tali da poter essere celati in un tasca. Hanno un raggio di azione limitato a 5-600 metri, ci spiega.
«Siamo sicuri che … ehm… Anatoliy» – stavo per dire PRION – «non intercetti anche i walkie-talkie.» – domando.
«Polina ne è sicura. Ora però statemi bene a sentire. Normalmente molti militari non vedono di buon occhio noi Rom. Alcuni ci disprezzano. Ci chiamano tsyhany, zingari, e va bene se poi non sputano per terra. Polina poi mi ha detto che quanto ad intolleranze e razzismo, il clima là dentro sta peggiorando. Sta accadendo qualcosa che non le piace per niente. C’è molta tensione. Sembra che da alcuni ufficiali si stia tramando qualcosa… Ha parlato di eversione di estrema destra. È molto preoccupata.»
«Ma è informata di ciò che sta accadendo davvero? E sa quello che noi stiamo per fare?»
«Me ne avrebbe parlato. Ma neppure io so e non voglio sapere. Mi fido di quel che mi hanno detto Olesya e Jaromir. Agiamo per il bene e soprattutto contro la guerra. E tanto mi basta. Topolski dice che almeno uno di noi deve inserire una chiavetta in una porta USB di un terminale e che apparentemente non accadrà nulla. Lo faremo e ce ne torneremo tranquillamente qui al campo. Basta con le domande. Procediamo.»
Topolski si alza di scatto e senza salutare se ne esce sbattendo la porta. Baxtalo neppure si volge per guardarlo.
La riunione riprende. Il Rom ci spiega che approfittando di una consuetudine, entreremo nella base per offrire a certi graduati che ben lo conoscono, parte dei preziosi contenuti nella teca. Tutta roba tranquilla, nel senso che alcuni sono prodotti dal clan, altri provengono da lontano, Russia, Bielorussia, Romania, sottratti, secondo lui a chi ne ha fin troppi. Rico ed io ci travestiremo da Rom, in particolare appartenenti a clan residenti in Italia. Gli ufficiali interessati sono già al corrente di questo, avvertiti in via amichevole dalla Kaminska.
Studiamo accuratamente la mappatura della base, attraverso le foto ed i videoclip da me ripresi nella finta installazione nel deserto dell’Oregon. Dobbiamo imprimerceli nella mente. Non potremo consultare le foto se non accendendo i cellulari.
Qualcuno da fuori grida come quando siamo arrivati noi. Keti apre la porta e parla concitatamente con un tizio. Poi si accosta all’orecchio del padre e mentre bisbiglia rivolge più volte lo sguardo verso di me.
Tuffo al cuore.
Infatti poco dopo sulla porta compare la madre dei miei figli. Baxtalo si alza e le va incontro. Accenna un premuroso baciamano e la invita a sedersi fra noi. Le mie tempie battono ad un ritmo piuttosto sostenuto. Lo sente anche lei, dal momento che ci scambiamo bacetti di circostanza.
Ma che diavolo…?
Semplice. La coppia Bit Chopin, Hae Myung è finalmente riuscita ad ottenere la prova inequivocabile della morte di Derevyanko. Forzando non so quanti blocchi, sono riusciti a penetrare negli archivi dello Sluzhba bezpeky Ukrayiny o SBU, il servizio di sicurezza dello Stato. In tal modo hanno scovato foto e filmati, corredati da documenti ufficiali con tanto di timbri e firme, riguardanti la sua autopsia fatta eseguire nella massima segretezza dal governo di Kiev, in caso ci fossero contestazioni che però ufficialmente non ci sono mai state. Il tutto è contenuto in un’altra chiavetta.
Baxtalo mette a disposizione il suo tablet per visionare con noi la documentazione video, tanto efficace quanto orripilante.
Pur senza volerlo viene messo al corrente che nella base c’è un falso Derevyanko che trama nell’ombra. Ribadisce il suo disinteresse per quelle cose e che era meglio non gli avessimo detto niente.
«Un lavoro davvero ben fatto.» – dico a Guen – «Complimenti ai due geni dell’hackeraggio. Credo però tu abbia fatto 2000 e passa chilometri per niente. Tutto questo non servirà.» – ma mi rendo conto che ha scovato l’appiglio giusto per essere con me sul campo, com’è ormai tradizione della Omega Investigazioni.
Mi sorride felice. Colgo pure un’occhiata indagatrice di Keti, rimasta in piedi accanto a suo padre dopo aver seguito il macabro show.
Come prevedibile Guen avanza la richiesta di far parte della partita.
Baxtalo però è irremovibile, né Aron Topolski né Guendalina ci seguiranno. In 3 siamo anche troppi. A niente valgono le ragioni di Guen, appoggiate dagli sguardi suadenti di Keti. Il grande capo neppure risponde se non fulminandole con gli occhi. E devo dire che dopo un solo tentativo Guen non insiste. Credo dovrò andare a lezione di sguardi da Baxtalo. In ogni modo Guen mi cede la chiavetta accompagnata da un timido “Potrebbe essere utile.”
Baxtalo prende una parte dei preziosi e li sistema in tre cofanetti. Li pone in una borsa. È l’ora di partire. Indossiamo le giacche a vento e via.
Il capo Rom si mette alla guida della sua vecchia Oldsmobile e partiamo slittando qua e là sulla neve. La strada fuori dal campo è stata tutta liberata dalla neve. A circa metà percorso raggiungiamo la carovana dei Lautari. Si fa un po’ di coda. Al sorpasso, grande scambio di saluti con Baxtalo.
Nei pressi di Staryi Saltiv incontriamo uno sbarramento militare. Le esercitazioni stanno terminando, e si vedono sfilare gli ultimi mezzi blindati, seguiti dal cielo da elicotteri. Alla fine giungono anche delle truppe a piedi che non sembrano molto propense a marciare compatte. Sono oggetto di ripetuti incitamenti e richiami da parte di sergenti e caporali. Il blocco viene rimosso addirittura mezz’ora dopo il transito dell’ultimo plotone.
Baxtalo procede fino ad una piazzola di sosta.
«Meglio aspettare la fine del rancio, quando tutto sarà quieto.» – ci dice.
Visto che siamo a poche centinaia di metri dalla base, Rico consiglia di spegnere i cellulari. PRION potrebbe avere esteso la sorveglianza anche alle vicinanze.
Approfittiamo per fare uno spuntino, cioè Rico e Baxtalo lo fanno, io no. Soltanto a pensare al cibo mi viene la nausea.
Guardo l’imponente rete davanti al muro di pietra che circonda il complesso militare, l’entrata blindata con al lato le torrette di guardia, dalle quali, diversamente da quelle viste nella base abbandonata nel deserto dell’Oregon, spuntano le canne di due mitragliatrici. Dentro è pieno di militari armati, addestrati, gente abituata ad eseguire all’istante ordini senza fiatare, ordini che potrebbero anche venire da un manipolo di ufficiali pseudo-nazisti, cioè da dei fanatici. E poi c’è un mostro che trama nell’ombra, nascosto a tutti, PRION, con i suoi tentacoli che si estendono per tutta la base. È sempre in piena attività, all’erta giorno e notte, microsecondo per microsecondo. Il suo obiettivo è di scatenare, attraverso la sua creatura abnorme, Derevyanko, quelle forze distruttive che proprio là sono concentrate, stanno lievitando fino ad essere pronte ad esplodere.
Ed io dovrei entrare là dentro per un sabotaggio, perché di questo si tratta. Devo fare esplodere una bomba informatica in un sistema altamente sofisticato. L’azione è mirata, continuo a ripetermi, chirurgica. Certo! Sdrowa Krowa dovrebbe aggredire PRION come fa la mangusta col serpente. La mangusta deve precedere le reazioni del rettile di qualche centesimo di secondo. A livello elettronico già il milionesimo di secondo è un tempo lungo. Che tempi di azione ha Sdrowa Krowa e che tempi di reazione ha PRION?
Małgorzata Jankowska! Hai fatto bene i tuoi conti?
«Voleva dire qualcosa, capo?» – mi chiede Rico.
«N… no.» – balbetto – «Perché?»
«Niente. Mi sembrava…»
Baxtalo consulta l’orologio. Accende il motore.
«14.30. Andiamo.» – è deciso.
Il mio stomaco ha una contrazione.
Vedo l’alta rete di sbarramento venirci incontro. Mi balza in mente l’entrata al funesto lager di Auschwitz. Come quella, è pure sormontata da una scritta in caratteri cirillici che non ricordo di aver visto nella finta base dell’Oregon. Siamo il solo veicolo in avvicinamento. Traversiamo la fascia brulla e non posso non notare il movimento delle due mitragliatrici poste sulle torrette al lato dell’entrata alla base. Probabilmente sono mosse da un meccanismo automatico. In pratica siamo sotto tiro.
Giunti davanti al portellone d’acciaio, dall’edificio al lato escono due militari muniti di mitraglietta che si pongono ai lati dell’auto. Baxtalo esibisce diversi documenti. Ci indica più volte. Parlotta a lungo con il milite. Deve uscire e recarsi nella guardiola. Ne esce con delle carte in mano. Finalmente il portellone comincia a scorrere sulle guide.
Mentre entriamo il capo Rom ci informa che purtroppo il comandante Polina Kaminska è ad una riunione degli alti gradi e non può riceverci. Ha correttamente avvertito le guardie del nostro arrivo, ma dobbiamo attendere il via libera in una sala che ci verrà indicata.
Il portellone si richiude inesorabilmente dietro di noi. Siamo subito intercettati da un’altra coppia di militari armati che agitano delle palette e ci indirizzano verso un edificio a pochi metri da lì. Usciamo dalla macchina praticamente sotto il tiro delle loro mitragliette, che sono sì, abbassate, ma sono impugnate.
Siamo instradati fino ad una saletta disadorna ed invitati a sedere su delle panche a muro. La porta d’acciaio viene chiusa e qualcosa scatta. In pratica siamo prigionieri. Bell’inizio! Fa anche freddo. C’è soltanto un piccolo termosifone che scotta, ma non gliela fa a compensare il gelo che spiffera da un vetro rotto.
Il tempo si ferma. Baxtalo tira fuori un sigaro. Lo accarezza mentre guarda un cartello che indica chiaramente il divieto di fumare.
Come in altre simili occasioni sono preso dall’invidia per Rico che ben piazzato, appoggiato spalle al muro, accenna subito ad appisolarsi. Vorrei lanciare un grido o magari far scoppiare un petardo – indizio non trascurabile della cattiveria che mi porto dentro, a mia insaputa.
Baxtalo guarda spesso Rico e sbadiglia. Ogni tanto consulta l’orologio.
«I Lautari dovrebbero essere nelle vicinanze, adesso.» – poi ricade nel mutismo.
La serratura della porta cigola.
Siamo scortati alla vettura. Il militare dice delle cose a Baxtalo e gesticola per dargli delle indicazioni.
Ripartiamo.
Contrariamente a quanto mi aspettavo però vedo molta attività in giro. Lo segnalo. Sento che anche Rico è preoccupato. Baxtalo lo dice apertamente: polizia militare, troppa, secondo lui. Non finisce di dirlo che siamo fermati da due guardie armate. Esame puntiglioso di documenti. Comunicazioni ai radiotelefoni. Facce dure. Ordini sulla faccia neutra di Baxtalo.
Ripartiamo.
«Non mi sembrava certo di correre.» – dice il capo Rom – «Non mi è piaciuto il modo in cui mi ha intimato di andare più piano. C’è qualcosa che non va in tutto questo.» – con la sinistra fa uno strano gesto col pollice inserito fra indice e medio. Una scaramanzia? Forse l’equivalente del fare le corna.
Prima di giungere agli uffici del colonnello Polina Kaminska siamo di nuovo fermati. Ci fanno addirittura scendere. Una delle guardie ci esplora con un metal detector. Scoprono i walkie-talkie. Si consultano. Parlano con il comando attraverso i radiotelefoni. Mi pare di udire un paio di volte la parola tsyhany e tsyhanka. Baxtalo, con ampi gesti di rispetto mostra delle carte e sento distintamente ripetere più volte: “polkovnika Kaminska”, seguito da spiegazioni. “Polkovnika”, mi dirà in seguito, significa “colonnello”, al femminile. Uno dei due gendarmi sembra piuttosto contrariato. Seguono interminabili silenzi con sguardi minacciosi.
Gli occhi di Baxtalo hanno un guizzo. Con molta circospezione trae dall’auto uno dei cofanetti contenenti gioielli. Parla pacatamente, come se stesse spiegando. Estrae delle collanine e dei braccialetti d’oro. Li mostra e li pone nelle mani dei militi. Poi se li riprende e con circospezione comincia a riporli nel cofanetto. Uno di quelli gli prende il polso e lo ferma. Il suo sorriso mi pare più un ghigno. Il risultato è che si appropriano di un paio di braccialetti e di un grosso anello con smeraldo. Salutano militarmente, gli ipocriti!
«Esaltati… » – ci spiega Baxtalo – «Molto “nazi”, se capite quel che voglio dire. Ci è andata bene. Neppure la Kaminska ha giurisdizione su di loro. Bisogna guardarsi bene dalla polizia militare di questa base. Però, occhio! non vi fate accorgere che cercate di evitarli se no siete fottuti.»
La polkovnika ci riceve nel suo ufficio senza farci sedere perché è molto occupata. Ad un cenno di Baxtalo si mette a parlare in inglese.
«Il generale Taras Brutka, il comandante di questa base, ci ha messo tutti in allarme.» – ci spiega frettolosamente – «Dice di essere preoccupato per il lassismo della truppa dopo l’esercitazione. Non è da lui. Ormai cerca di non contraddire più il suo vice, il tenente colonnello Malinski…»
In un flash mi balza in mente quella strana comunicazione inoltrata dall’agenzia Reuter in Novembre.
«Quello che ha sostituito…» – dico di getto – «Hopko? Il colonnello Hopko, mi pare di ricordare.»
Mi guardano tutti con meraviglia.
«Sì, scusate l’interruzione…»
«È corretto. Lei è il signor…?»
«De Carolis» – le rispondo.
«Non so come ne sia venuto a conoscenza. Goria Hopko è proprio stato sostituito da Wasil Malinski dal 20 Novembre scorso. Doveva essere una notizia riservata. Ora, Malinski è intelligente e qualificato, ma…» – abbassa la voce ed in tono confidenziale, rivolta a Baxtalo: – «Si dice creda ostinatamente in quell’impostore.»
Mi verrebbe di pronunciare il nome di Derevyanko, ma non oso.
«Dimenticate quel che ho detto.» – riassume una postura di comando.
Parla velocemente al capo Rom. Questi le presenta le carte ricevute all’ingresso. Lei firma rapidamente. Mentre risponde ad una telefonata, ci fa cenno di uscire. Con l’auto giungiamo in un punto che giudico essere circa al centro della base.
«Adesso» – ci istruisce Baxtalo – «ciascuno di noi si presenta ad un cliente. Gli fa vedere la merce. Niente sconti. Si fa pagare sull’unghia fino all’ultima grivnia. Poi, appena possibile infila la dannata chiavetta nel primo terminale che gli capita a tiro. Avverte gli altri e si dirige subito qui. Quando ci siamo tutti e tre, ce la filiamo.» – nel dir così segna sulla mappa allegata alle carte d’ingresso una croce per me ed una per Rico. Sono i posti dove dobbiamo recarci. Oltre alla mappa ci dà un cofanetto per uno.
«Udacì druzì» – ci dice – «Buona fortuna, amici!» – poi di nuovo quel gesto scaramantico. Ci dividiamo.
Con quella mappa in mano m’incammino e mai in vita mia mi sono sentito così solo.
Naturalmente incontro altri della polizia militare, ma non mi fermano. Si limitano a parlare dentro i radiotelefoni mentre mi guardano. È un bene che mi sembri di esserci già stato in quella base. La disposizione degli edifici è praticamente identica a quella della sua copia in America: capannoni sparsi in una vasta area boschiva, con prevalenza di alberi di ginepro occidentale, come ci disse Hae Myung, rari nell’Oregon, ma comuni in questi territori. La disposizione dei mezzi militari è ovviamente diversa. Molti di quelli che vedo sono sporchi di fango e neve. L’edificio presso il quale mi devo recare è lontano, quasi all’estremità opposta all’entrata.
Finalmente giungo al grande capannone indicato sulla mappa.
Accidenti! Come si vede dalle insegne, qui c’è il comando del battaglione Nahorny, un tempo comandato proprio da Nazar Derevyanko e adesso, come scoperto da Hae Myung, al comando di Leonid Roshka. A causa di PRION potrebbe essere proprio la tana dei lupi. Tornare indietro? Sarebbe saggio. Ma poi come lo racconto? Entro. Sarà quel che sarà!
Come nella finta base nell’Oregon anche qui vi sono delle strutture in legno simili a brutte baite che fungono da uffici ed alloggi. Al momento circolano pochi militari. Individuo una baita assai più grande delle altre con le insegne del battaglione. C’è una sentinella all’ingresso. Mi presento mostrando i documenti. Come da istruzioni mi mantengo muto. Un’occhiata alle carte, un saluto distratto e mi dà via libera. All’interno c’è un bel calduccio, ma non basta a togliermi l’ansia. Trovo subito la tana di Roshka. Un militare esce da un ufficio lì vicino. Mi ferma esamina i soliti documenti. Bussa, apre la porta. Il mio sguardo fruga subito intorno alla ricerca di un terminale. Ce ne sono due, uno a disposizione del capo su un’ampia scrivania ed uno su una scrivania piccola a lato, momentaneamente deserta.
Il colonnello è un tipo massiccio, mascella quadrata, occhi grigi, capelli brizzolati, sta battendo sulla tastiera. Ciononostante è impettito. È in tuta mimetica, colma di mostrine e decorazioni. Mi squadra per pochi attimi poi continua a battere sulla tastiera. Dice alcune cose in ucraino, ma non mi fa cenno di sedermi. Dietro la scrivania è esposta la bandiera ucraina, blu e gialla a strisce orizzontali. Accanto vi è l’emblema della 74sima Brigata Aerotrasportata, vale a dire un’aquila ad ali spiegate su delle spade e dei fucili incrociati, già vista nella finta base. Accanto vi è l’immagine che mi pare proprio di Nazar Derevyanko, come ho visto qualche ora prima nella documentazione fotografica della sua autopsia.
Finalmente smette di scrivere. Alza gli occhi su di me.
Faccio qualche cenno di saluto e dalla giacca a vento tiro fuori il cofanetto.
Me lo strappa dalle mani e lo apre. Guarda e borbotta qualcosa in ucraino. Sembra interessato ad una collanina in oro. La alza per osservarne i riflessi.
«Bela, molto bela.» – mi dice guardandomi come si guarda un cane – «Ty italiens’kyy, io so.»
Esamina il cartellino del prezzo. Costa 5500 grivni.
«Mhmm, Pyat tysyach pyatsot!» – o qualcosa del genere – «Molto, molto caro. Ty dare solo… quanti questa?» – mi mostra cinque dita.
«Cinque.» – rispondo
«Bravo. Pyat! Pyat tysyach.»
Scuoto la testa.
«Ach!» – la sua è una smorfia di disprezzo – «Italiano di mio culo! Ricorda Mussolini?»
Accenno di sì.
«Ah! Lui nemico… ma uomo bravo. Ty nie!» – si volge indietro e guarda per alcuni secondi l’immagine di Derevyanko ed aggiunge: – «Dico cinque tysyach grivni no una grivna più, tsyhanka!!» – Batte il pugno sulla scrivania.
Credo sia il caso di accettare. Accenno di sì.
Guarda ancora la collana, se la rigira fra le mani, poi la infila nel taschino della tuta. Tira fuori il portafoglio e mette sulla scrivania 4 biglietti da 1000 grivni. Ci batte sopra la mano di piatto.
«Tse i vse!» – o simile. Mi fissa con i suoi occhi grigi.
Gli mostro le cinque dita e cerco di ricordare come si dice.
«Pyat.» – affermo, senza forzare il tono.
«Ach! Italiano di mio culo!»
Ci risiamo! E ora?
«Ciotyri, a nie pyat! Io dico!» – ha alzato la voce e brandisce 4 dita come se volesse colpirmi.
Rimango inebetito. Che diavolo faccio? Quello è capace che se approvo comincia a sottrarre e alla fine non mi dà più un duino. Urla ancora «Ciotyri!»
Sono paralizzato. Allora schiaccia un pulsante dell’interfono.
«Okhronets!» – chiama urlando.
Niente.
Ripete per 3 o 4 volte quella parola. Pesta sul pulsante, ma si odono solo dei click.
Il volto si contrae in una smorfia di rabbia. Si alza di scatto. Si dirige a gran passi alla porta, esce nel corridoio urlando: “Okhoronets!”, seguito da improperi. Odo i suoi passi pesanti allontanarsi. È furioso, cerca qualcuno, forse una guardia e, non trovandola, s’infuria sempre di più.
So che mi domanderò per sempre il perché, ma prendo la chiavetta contenente Sdrowa Krowa e la lascio ben visibile sulla scrivania piccola a lato di quella di Roshka. Giusto in tempo per farmi ritrovare nella posizione dello stoccafisso nella quale mi aveva lasciato.
Dietro di lui entra un milite alto come me, armato di tutto punto. Polizia militare. Mi squadra da capo a piedi.
Con ampi gesti ed in preda ad una furia, Roshka prende il cofanetto dei gioielli, me lo caccia malamente in una tasca della giacca ed a braccio teso mi indica l’uscita.
«Poza!» – urla.
Lancio un’occhiata ai 4000 grivni sulla scrivania e mi trovo una pistola puntata contro. Quant’è brutto quel foro nero davanti agli occhi!
«Zaraz poza!» – l’urlo è divenuto rauco per l’ira, mentre continua a puntarmi contro quell’arma.
La guardia mi prende per un braccio, me lo spreme fino a farmi male. Mi trascina via. Mi spinge violentemente lungo il corridoio e poi m’imprime un ultima violenta spinta fuori dall’edificio. Lotto per non cadere. Mi allontano senza alcuna dignità, presumo. Esco dal capannone. Spero nessuno abbia visto. In ogni modo, mi dico, la missione è compiuta. È solo questione di tempo. L’occupante della scrivania accanto a quella di Roshka vedrà la chiavetta e per curiosità sarà indotto ad inserirla nel terminale per vedere cosa cavolo contiene e il gioco è fatto. Nel frattempo io sarò lontano. Mi congratulo con Dagoberto de Carolis.
Ora avverto Rico e Baxtalo e ce la filiamo.
Il walkie-talkie vibra. Forse Rico o Baxtalo mi stanno anticipando.
Guen! Accidenti!
«Guen! Che succede? Dove sei?»
«Finalmente! Ma questi cosi fin dove arrivano?»
«Dove sei?» – cerco di tenere la voce più bassa possibile. Non vedo nessuno intorno, ma non si sa mai.
«Sono dovuta entrare nella base per riuscire a parlarti. Sono con Keti ed il teatrino.»
«Ma sei ammattita?»
«A Topolski è giunta una comunicazione da un americano. Apri bene le orecchie. Il codice sorgente di PRION può aver subito modifiche dopo che è stato ceduto alla Jankowska. Sdrowa Krowa potrebbe non funzionare a dovere. Può suscitare un allarme! Hai capito quello che ti sto dicendo?»
«S… sì… E Topolski?»
«Gli hanno ordinato di non intraprendere alcuna azione. Keti ed io gli abbiamo praticamente rubato l’auto per venire fin qua. Pianta tutto e fila via. Io uscirò con i teatranti.»
«Bisogna subito avvertire Rico e Baxtalo.»
«A Baxtalo ha pensato Keti. Sta già dirigendosi al vostro punto d’incontro.»
«Sai se Baxtalo ha inserito la chiavetta da qualche parte?»
«Non l’ha fatto. Se anche Rico non lo ha fatto siamo a posto. Ce ne andiamo. Non sono più affari nostri.»
Che faccio? Glielo dico che ho già lanciato il sasso, o no?
Non posso nasconderle un’informazione del genere.
Rimane silenziosa per qualche secondo.
«O. K., hai fatto quel che ti sembrava giusto.» – mi dice – «Abbiamo del tempo per organizzarci… ma non sappiamo quanto. Chiama subito Rico. Ciao.»
Sulle prime Rico non risponde, poi mi spiega che stava vendendo un braccialetto ad un sergente. Informato della situazione non batte ciglio.
Giungiamo quasi contemporaneamente al rendez-vous. Troviamo Baxtalo al volante della sua Oldsmobile. Appena ci adocchia mette in moto.
«Keti mi ha avvertito che avete combinato delle diavolerie. Quanto a me, la chiavetta l’ho deposta delicatamente in una fogna.» – ci dice mentre parte senza particolare fretta.
«Nessuna diavoleria.» – gli spiego – «Può andare tutto bene.»
«Ma anche no.» – ribatte.
«In ogni modo» – mi preme spiegargli – «sono stato avvertito di possibili problemi soltanto dopo che ho lasciato la chiavetta vicino ad un terminale e sono uscito. Non potevo certo tornare a riprendermela.»
Giungiamo all’uscita e Baxtalo scende per consegnare le carte firmate dalla colonnella Kaminska. Mentre rientra, il portellone d’acciaio comincia ad aprirsi. Ma si ferma a metà strada.
L’apertura sembra sufficiente per passare oltre. Gli occhi del capo Rom hanno un barbaglio ed il motore sale di giri. Rico dal sedile posteriore dice un secco “No!”. Baxtalo si volge indietro e lascia cadere le braccia. Il portellone si richiude. Non ce l’avremmo fatta. Nel giro di pochi secondi ci ritroviamo come quando siamo entrati, nella stessa stanza squallida, gelida e per di più oscura, ora che il sole è al tramonto. Che ha combinato Sdrowa Krowa?
Non passa molto tempo che veniamo prelevati da ben 4 militari armati e le loro mitragliette non sono completamente abbassate, anche se non proprio spianate contro di noi.
Ci caricano su una camionetta che si mette a correre a tutta velocità. Baxtalo mormora: – «Viyshkova Politsiya, brutto affare.»
Uno dei 4 alza la mitraglietta verso di lui e gli sbraita qualcosa. Baxtalo ha un lampo selvaggio negli occhi ma subito abbassa lo sguardo.
Siamo portati al cospetto di una graduata, giovane, occhi verdi, capelli biondi, cortissimi, in uniforme nera, con sul petto e sul braccio sinistro stemmi formati da una stella a parecchie punte, 8 per la precisione, contenente l’immagine su sfondo nero di due spade che s’incrociano dietro un fascio, simile a quello che in Italia è ormai parte della sua storia. Siede dietro una grossa scrivania sulla quale è poggiato il cappello portante lo stesso emblema accanto alla tastiera di un terminale. C’è anche una targhetta. Dice che lei è la polkovnika, cioè la colonnella Alina Antonelka. Alle sue spalle, la bandiera ucraina ed un’immagine di Derevyanko. È rilassata e le sue labbra del tutto prive di rossetto, sono sfiorate da un indefinibile, preoccupante sorriso.
Baxtalo ci traduce le prime frasi, allora lei con un sorrisetto di autocompiacimento continua in inglese.
«Zingari. Stupidi zingari! Venuti apposta dall’Italia. Così mi ha informato Leonid Roshka. Per quale ragione? Io però non credo siate degli zingari. Lui sì lo è.» – indica Baxtalo – «Qualcuno di voi due» – indica Rico e me – «ha contaminato con un virus il nostro sistema informatico.» – sbandiera ai nostri occhi la chiavetta USB che ho lasciato nell’ufficio di quel bastardo – «Un semplice dannato virus, così ci ha detto Huhayev. E se lo dice lui ci possiamo credere. È sabotaggio di una base militare. Punibile con la morte. Siamo in guerra.» – si mette a tamburellare con le dita sulla scrivania e ci squadra per osservare le nostre reazioni.
Poi aggiunge: – «Non riusciamo più ad entrare in contatto con un nostro connazionale molto importante.» – istintivamente accenna a volgersi verso l’immagine dietro le sue spalle – «Molto strano il vostro virus.»
Squilla il telefono.
Pur restando seduta sembra mettersi sull’attenti. Da quel che segue mi sembra di capire che stia parlando con Wasil Malinski il comandante in seconda della base, uno che secondo Polina Kaminska crede nel falso Derevyanko.
Baxtalo mi sussurra che il vice del generale le sta ordinando di far circondare l’auditorium, consegnare tutti i militari ai loro alloggi ed in pratica tenere là sequestrati i teatranti.
Primo mio pensiero: Keti può passare per una della troupe, ma Guendalina no. È in pericolo ed io non posso fare niente di niente. Non lo do a vedere, ma mi mordo le mani.
Terminata la telefonata, chiama qualcuno al citofono. Pochi attimi e si presenta un tizio, stessa uniforme nera, armato di pistola e manganello. Si pone sull’attenti. Immagino che la polkovnika gli trasmetta gli ordini appena ricevuti. Quello sbatte i tacchi, saluta militarmente ed esce. Si odono imperiosi richiami con fischietto ed a seguire intensi scalpiccii e rumor di camionette che sgommano via.
Baxtalo le dice qualcosa in ucraino.
Lei batte un pugno sulla scrivania e gli grida qualcosa come:
«Tysha, tsyganka!» – probabilmente “Stai zitto zingaro!”
Poi ci sorride ed in inglese: – «Questo ehm… signore ha chiesto se funziona tutto regolarmente.» – si gode la nostra ansia di sapere e si capisce subito che non vuole andare oltre.
Io e Rico ci guardiamo. Entrambi sappiamo che il sistema controlla l’erogazione dell’energia elettrica e le comunicazioni telefoniche. Quelle, come abbiamo visto, funzionano. Il monitor del terminale è acceso e su di esso si susseguono anche delle schermate piene di grafici e tabelle. Le luci sono accese. Tutto funziona. Sdrowa Krowa ha fatto dunque il suo dovere. PRION è fuori uso ed il sistema è intatto. Brava Jankowska.
Ma ci sono i fedeli di Derevyanko. Per loro è soltanto scomparso dai loro schermi. Era una creatura di PRION, ma loro non lo sanno e forse non lo vogliono sapere.
Secchi ordini ai nostri guardiani e siamo perquisiti. Via il portafoglio, via il walkie-talkie, addio cellulare! Gli oggetti vengono allineati sulla scrivania e naturalmente esce fuori anche l’altra chiavetta USB, quella datami da Guen.
Alina Antonelka pone subito l’attenzione su di essa. La prende e retoricamente la mostra a tutti.
«Ah! Bene! Il virus di riserva! Siete davvero previdenti!»
Però non è uscita fuori la chiavetta di Rico. Da uno scambio di occhiate capisco che anche lui se ne è liberato in qualche modo.
«Non contiene virus.» – mi azzardo a dire nel modo più neutro possibile.
«Ah no?» – mi guarda come volesse dirmi – “Cerchi di fare il furbo con me?”
«Può esaminarla su un portatile o su un tablet, se vuole.»
Rimane silenziosa rigirandosi la chiavetta davanti agli occhi. Ad intervalli mi lancia occhiate indagatrici. Infine parla con qualcuno al citofono.
«Ora vediamo.» – mi dice rilassandosi con le spalle allo schienale.
In capo ad una decina di secondi compare un tizio con un portatile. Lo accende. Lei gli porge la chiavetta sempre con quel sorrisetto ironico sulle labbra. Il silenzio si taglia col coltello.
Io so quello che comparirà sul monitor e malgrado la paura di quel che può accadere, il solito sfuggente spiritello che abita in me, si appresta a godersi la faccia di quella fanatica di Derevyanko.
Il tizio ruota il portatile in modo che quella possa vedere.
Lo spiritello, o chi per lui, si mette a saltellare di gioia – il sorrisetto giocondiano è totalmente scomparso dalle labbra della polkovnika. Oh quanto vorrei poter filmare il suo volto mentre il suo animo è colpito dalla tempesta di una possibile, inaccettabile verità! L’esposizione delle prove, compresa la documentazione foto- e filmografica dell’autopsia di Derevyanko dura un’eternità. Percepisco sulla pelle la tensione dei guardiani che ci tengono in ostaggio. Rico, come al solito, è calmo ed imperturbabile. Il capo Rom sta invece combattendo per tenere a freno le sue reazioni selvagge al pericolo che incombe.
Ora però tutto si accomoderà, penso.
Infine Alina Antonelka, il volto impietrito, chiude di scatto il portatile.
«Questo è ben più di un atto di sabotaggio.» – la sua voce è profonda e grave – «Se con questo,» – picchietta con l’indice sul portatile – «il governo di Kiev s’illude di bloccarci ha sbagliato di grosso. Ha semplicemente accelerato la sua fine, perché Nazar Derevyanko è vivo.»
In pratica ci ha rivelato il piano eversivo istigato da PRION. Qualcosa non sta andando nel verso giusto. Una nota lugubre risuona nelle mie viscere.
Di nuovo il telefono squilla. Ancora quel porsi sull’attenti.
La comunicazione col suo capo è breve.
Il sorriso sprezzante torna sulle sue labbra e si compiace di informarci:
«Non ci vorrà molto. Vi sarà una breve interruzione nei servizi, il tempo perché il sistema ausiliario prenda il controllo, poi il nostro Huhayev inizierà il ripristino del sistema principale nelle condizioni precedenti l’infezione. Comunicheremo di nuovo con Lui.» – di quella lettera maiuscola ne sono maledettamente sicuro.
Silenzio. Poi riprende con astio.
«Comunque sia questa specie di falso» – solleva un po’ il portatile e lo lascia ricadere sulla scrivania – «lo considero l’ultima delle vigliaccherie perpetrate ai danni di colui che dovrebbe essere onorato come eroe nazionale.» – adesso sembra più parlare a se stessa che a noi – «Prima gli hanno chiuso la bocca, poi lo hanno degradato, poi hanno provato ad assassinarlo! Ed ora questa porcata – una volgare pantomima della sua autopsia. Quanto a voi…» – nei suoi occhi si accende una luce che mi terrorizza – «Quanto a voi… prima della fucilazione dovrete cantare… oh sì, dovrete cantare tutta una canzone. Chi siete veramente… chi vi ha mandato e perché… Fate pure gli eroi! Sappiate però che abbiamo dei maestri cantori molto professionali… » – e rivolta agli sgherri, un ordine bruciante: – «Zabyrayesh yikh!» – che immagino voglia dire di portarci fuori da lì.
Baxtalo ha uno scatto felino. Colpisce un poliziotto con una gomitata in faccia e si precipita alla porta. È subito abbattuto con ripetute manganellate in testa. Ho sentito male anch’io. Le mie gambe tremano e si vede che ho un cedimento perché vengo colpito da un acuto dolore alla schiena. Una manganellata anche per me. Colgo lo sguardo preoccupato di Rico. Il corpo di Baxtalo viene trascinato via. Sono sorpreso dallo scatto delle manette ed ancora un acuto dolore, stavolta al polso sinistro a causa dell’orologio probabilmente spezzato da quella tenaglia. Siamo brutalmente spintonati fuori.
Si è alzato un vento gelido, le luci alte sulla strada sono accecanti. Siamo caricati su un furgone che parte a tutta velocità. Poco più di un minuto di percorso e sospinti con i manganelli alle costole veniamo condotti in un brutto edificio in cemento armato. Siamo sprangati in due celle diverse. La mia sarà si e no 3 metri quadri e non c’è niente se non uno sporco e maleodorante recipiente, presumibilmente per i bisogni corporali ed un micro lavello con un rubinetto gocciolante. La luce proviene da una piccola lampadina al soffitto. Mi scopro a pensare che forse è meglio sia così fioca. Sarà più facile dormire. Poi un amara riflessione: quello sarà il minore dei problemi.
Lo sconforto non tarda ad invadermi. Peggio di così non poteva andare. Credo di provare il terrore dei prigionieri nei campi di concentramento nazisti. Lo stomaco mi fa male e lotto per non vomitare. Questo porcile diverrebbe invivibile. Il tempo si ferma.
Dopo non so quanto, ma certo parecchio tempo, la serratura geme ed ho un tuffo al cuore. Sono prelevato con la stessa delicatezza di prima e portato quasi di peso in una stanza grande e squallida, legato strettamente ad una gelida sedia di metallo, davanti ad una luce accecante presumibilmente posta su un tavolo. Dietro quella luce intuisco la presenza di qualcuno… uno, due… forse tre persone… i maestri cantori? Ho sete, la mia bocca è arida, amara.
“Dagoberto, è questa la Paura!” – mi dico.
Odo dei “beep”. I figuri dietro la luce parlano e sembrano rispondere ad una voce metallica. Ed io che non capisco un’acca di quel che dicono, sento un veleno impadronirsi del mio corpo. Mi sento letteralmente disgregare.
Uno di loro alza la voce. Sembra che la sua ira cresca col tono della voce metallica. Pesta per terra e batte pugni sul tavolo.
La luce abbagliante si spegne. È il buio. Poi pian piano vedo. Un figuro in piedi in mezzo ad altri due che lo guardano. Ha una grossa pistola ed è puntata su di me.
Ora, poiché non sto scrivendo dal paradiso, né dall’inferno, è ovvio che ne sono uscito vivo.
Come?