Venerdì 29 Novembre
Damiano sta bene, così lo accompagno a scuola. Telefono a Rico per dirgli di inviarmi la sua nota spese e così liberarlo da ogni incarico. Cerco di rilassarmi, tanto fino alle 14 sarà improbabile ricevere notizie da Guen.
Poco dopo le 11 il walkie‑talkie cicaleggia.
«Avevi ragione.» – mi dice la voce di Giorgio, metallizzata dal piccolo apparecchio – «M’hanno solato il portatile.»
«Sono entrati in casa?»
«No. Sono qui all’Università… un attimo di distrazione alla macchinetta del caffè. Ero in mezzo ad altri. Niente. Nessuno si è accorto di niente… e adesso ce l’hanno loro.»
«L’avevi ripulito?»
«Sì, credo di sì.»
«Che vuol dire “credi”?»
«Gli ho fatto un bel lavaggio… Sulle celle del disco puoi farci anche 8 passaggi prima di aver soppresso ogni traccia di quel che c’era all’inizio. Dipende dalla sensibilità dei mezzi che hanno. Per quanto ne so, sono 8 i passaggi indispensabili, ma può essere che ora… insomma non c’è che incrociare le dita.»
«O. K., tienimi informato e non farti vedere in giro col walkie‑talkie.»
Sono appena suonate le 13. Sto cucinando in attesa che la zia Clarissa mi riporti Damiano. Squilla il telefono. È la mia metà da Baltimora.
Come se mi informasse che sta per andare dal parrucchiere, mi dice che tarderà il rientro di qualche giorno perché sta per andare a San Francisco.
«San Francisco?»
«Sì, faccio un salto alla Stanford.»
«Che mi pigli un colpo!»
«Dai, non fare l’uggioso, penso di cavarmela in 24 ore.»
Alla Stanford University! Coincidenza? O legame con gli eventi qui a Roma?. Non so quante domande mi passano per la testa in pochi attimi.
«Pronto, pronto?» – mi fa.
«Sì» – rispondo – «Sono in linea. Ora però mi dici che diavolo vai a fare proprio alla Stanford.»
«È troppo complicato. Te lo dirò a Roma.»
«Ha a che vedere con quel… insomma quel testimone di ieri?»
«Sì.»
«Testimone di che?»
«E va bene! È stato testimone di un tentato suicidio.»
«Tentato suicidio, hai detto?»
«Sì. Un poveretto è stato ricoverato con ustioni di terzo grado per tutto il corpo al Johns Hopkins Hospital.»
«Scusa, ma tu come lo sai?»
«C’ero anch’io.»
«Per quel dannato servizio fotografico?»
«Ssst. C’è Gianna qui. No, ero ricoverata.»
Questa è la classica goccia che fa traboccare il vaso. Ci vuole una decisione rapida e risolutiva.
«O. K., dimmi bene del volo che stai per prendere.»
«Non ti mettere in testa idee strane, de Carolis!»
«Per favore! A che ora parte da Baltimora e a che ora arriva a San Francisco?»
«Parte fra 3 ore e rotti. Alle 11.20, ora di Balt ed arriva alle 12.30, ora di Sanfra.»
La mente si mette a correre. Atterrerà a San Francisco quando a Roma saranno le 21.30 di oggi. Se trovo un aereo che parta da Roma prima delle 18, potrò essere a San Francisco circa 17 ore dopo, se ben ricordo. Dunque dunque dunque… potremmo vederci all’Aeroporto Internazionale SFO circa alle 2 di Sabato mattina ora locale. Vederci… a quell’ora… beh, è un po’ prestino… ho margine per partire anche 6 o 7 ore dopo le 18 di oggi.
«Vedo che mi stai chiamando dal fisso di Gianna. Hai un cellulare sul quale chiamarti?» – le chiedo, mentre mi figuro il suo sorrisetto sarcastico e compiaciuto, uguale a quello di un pescatore che comincia a tirare a sé un grosso pesce che ha appena abboccato. Quel pesce sono io. Lo so, lo so, ma se Guen ha gettato la lenza vuol dire che mi vuole vicino per qualche buona ragione.
Sabato 30 Novembre
17 ore e 45 minuti di volo sono uno stress tremendo, almeno per me. In aereo, fra quelli che chiacchierano, le hostess che ti offrono da bere, da mangiare, di sistemarti il sedile, il ronzio, la noia, i film disponibili che cominci a vedere e poi vai a vedere se ce n’è uno meglio, senza contentarti, ovviamente, e robe del genere, non riesco a trovar pace. Ci si mette pure uno scalo a New York, così quando scendo a San Francisco, alle 7.15 di Sabato mattina, ora locale, sono assonnato, confuso, rincretinito e non oso pensare alla mia faccia, nel momento in cui Guendalina, fra la folla agli arrivi, mi fa cenno con la mano di avermi riconosciuto. Come avrà fatto?
Guidato, ma diciamo sospinto da Guendalina, mi ritrovo sul pullman messo a disposizione dall’hotel Good Nite Inn diretto a Redwood City, città delle sequoie, situata a meno di 10 chilometri dalla nostra meta, cioè dalla Stanford University. Perché ogni tanto si volge verso di me e mi guarda insistentemente? Ah, ecco! Si è allentato il foulard… diavolo! Ha un coso attorno al collo! Un collare ortopedico o cosa?
Al punto interrogativo che finalmente legge sul mio volto, mi dice di continuare a sonnecchiare che è tutto O. K. e che poi mi spiegherà.
Giungiamo all’hotel intorno alle 9. Il mio organismo dice che non è vero, per lui sono le 6 pomeridiane. Il cervello annaspa.
Il tempo è buono, ma tira una brezza fredda, quella che a Roma chiamano una “giannetta”. Ci sediamo per quella che dovrebbe essere una colazione ad un tavolo interno in vista della piscina sulla quale aleggiano batuffoli di vapore. Man mano che riemergo dall’incoscienza mi accorgo che un po’ dappertutto pendono lampadine in technicolor, fronzoli luccicanti e babbi Natale che occhieggiano ottusamente, senza posa, mentre una delicata, ma invasiva musichetta di sottofondo ripropone continuamente i motivetti di circostanza: “Jingle Bells”, “Silent Night” e “Oh Christmas Tree”… e mancano ancora 25 giorni al Natale!
A me non piace il caffè americano, proprio no, ma me ne servo abbondantemente. Guen mi deve delle spiegazioni ed io voglio essere ben sveglio per sapere. Perché diavolo indossa un collare cervicale che le immobilizza la testa?
Così mi racconta di Faceless.
Sabato scorso, il 23 Novembre, in mattinata, lei, madre dei miei figli si trovava nel bel mezzo di una manifestazione di carattere politico nel centro di Baltimora. Scattava una foto dietro l’altra per conto della sua amica Gianna che fa servizi fotografici che poi cerca di vendere a qualche giornale.
È scoppiato un tafferuglio e lei, col carattere che si ritrova, ci si è tuffata dentro. Quel che ricorda è di aver inquadrato un manifestante che indossava una maschera di cartapesta, una caricatura di Trump e, subito dopo, la grande faccia di un occhialuto che la osservava. Il mal di schiena è sopraggiunto in pochi secondi. L’occhialuto portava una targhetta sulla quale riuscì a leggere: Doctor John Monticella – Surgeon. Si trovava dunque in un ospedale. La testa si mise a ronzare sempre più forte. Si accorse che era immobilizzata da un collare cervicale molto fastidioso. Ma la cosa che le fece davvero paura fu che non riusciva a muovere bene il braccio destro.
«Keep still. Don’t move.» – le diceva ogni tanto John Monticella, girandosi verso di lei mentre parlottava con un tizio sulla quarantina, con i baffetti di Hitler, alto e robusto, in trench sbottonato. Aveva tutta l’aria di essere un detective appena uscito da un film hollywoodiano.
Doveva pazientare. Era viva, respirava regolarmente, sentiva e muoveva bene le gambe ed il braccio sinistro. Quello destro, più che essere impedito, risolse che era soltanto intorpidito. “Niente di grave, Guendalina” – si disse.
Per rilassarsi provò ad ascoltare quel che si dicevano i due.
«Che le è successo?» – domandava l’uomo in trench al medico.
«Una randellata dietro la schiena, durante una manifestazione.»
«Ah, brava!» – le disse gettandole un’occhiata di rimprovero.
«Scusi, ma lei chi è?»
«Tenente Dick Oliver Sparks.»
«Stia attenta signorina,» – intervenne Monticella – «sembra una brava persona, ma le dico solo una cosa: lo chiamano Dossie, da DOS…»
«Ma non sono le sue iniziali?»
«Già.» – s’inserì il tenente – «Glielo dico io prima che glielo dica quella malalingua. Mi chiamano Dirty Old Skunk, ecco.»
«Oddio…» – esclamò la ragazza – «Non è edificante… “Sudicia Vecchia Puzzola”! Che ha combinato tenente?»
«E tu che hai combinato? Sei sorvegliata a vista, lo sai?» – nel dir così indicò la porta.
«Ah! Sono piantonata! Ed io che mi sono fidata di quel che voi andate strombazzando in giro.»
«Che vuoi dire?» – le domandò burbero.
«Attenta.» – s’intromise il medico – «Dossie non va tanto per il sottile.»
«Ehi, Monticella! Ma è una tua parente, questa?»
«Che dici? Di italiano in me c’è solo quel che è rimasto del mio bisnonno.»
«Allora non t’impicciare. Cos’è che andiamo strombazzando noi americani?» – si era fatto minaccioso, aggressivo.
«Niente,» – continuò Guen con la sua migliore aria impertinente – «Ero convinta che qui negli States ci fosse la libertà di manifestare…»
«Contro che cosa?» – il tenente era sempre più immusonito.
«Credo protestassero contro gli ultimi twitter del Presidente.»
Sembrò deluso.
«È venuto qui per portarmi in galera?»
«No, se non hai ammazzato qualcuno.»
«È della omicidi.» – chiarì Monticella – «È qui per niente.» – guardò il tenente con un sorriso ironico.
«Lui si crede un padreterno,» – interloquì l’interessato – «Sono qui per il mio lavoro, ma lui…»
«Sei tu che ti credi domineddio. Ti ho già detto che Faceless, è in codice rosso, in rianimazione, in una vasca per grandi ustionati. Non puoi vederlo. Qui decido io.»
«Faceless?» – Guen drizzò le orecchie per chiara deformazione professionale.
«Un poveraccio» – spiegò il medico – «un barbone, ustionato dalla testa ai piedi. Irriconoscibile. Non ha più la faccia e poi non gli è stato trovato addosso alcun documento o qualcosa che serva per identificarlo. Niente. Qualche sporco teppista ha cercato di bruciarlo vivo stanotte.»
«Ancora non lo sappiamo.» – precisò Sparks – «A pochi passi da dove è stato trovato, in una pozza d’acqua quasi sotto un viadotto della Joness Falls…»
«La superstrada?»
Sparks assentì
«Dunque,» – spiegò – «al riparo del viadotto c’era un fuoco ormai quasi spento. Appoggiato ad un pilastro di cemento, abbiamo trovato un barbone, quasi in coma da quanto era sbronzo…» – si fermò come per riflettere – «… c’era anche una tanica con qualche goccia di benzina dentro.»
«Dove?» – domandò la ragazza.
«Dove?… ah, vicino alla brace, ad una decina di piedi.»
«Tutto qui?»
«Sei una giornalista?» – chiese Sparks.
«Solo per caso. A casa faccio la detective.»
«Ah!» – esclamò – «Non hai l’aria di una collega.»
«In proprio.» – ammise Guen guardandolo dritto negli occhi – «E… questo barbone l’avete interrogato?»
Sparks parve imbarazzato.
«Veramente io… e poi ad una detenuta!» – esitò per qualche secondo, poi: – «Ma sai che ti dico? La cosa mi diverte. Siamo riusciti a prendere una manciata di quei pezzenti che albergano lì vicino, altri barboni. Alcuni sono sfuggiti alla retata. Sappiamo però che quella è gente innocua. Reggono l’anima coi denti. Solo che quello appoggiato al pilone sembrava avesse qualcosa da dire. Stamani verso le 7 e mezzo i ragazzi mi hanno telefonato che Dromy, così si fa chiamare, era in crisi di astinenza e stava farneticando. 100 o al massimo 120 libbre di sudiciume in agitazione. Son dovuti intervenire in due per tenerlo fermo. Pare avesse visto la vittima completamente avvolta dalle fiamme. Continuava a ripetere: “Woof!” – mentre si copriva gli occhi con il braccio e poi: – “Gli yobbos! sono stati loro, loro, gli yobbos! Non devo dire altro.” – poi ricominciava da capo come una pianola a mano. Accidenti! Perché ti dico tutte queste cose?»
«Gli yobbos? che roba è?»
«Mugs, baddies, lobos, cons, apes, roughnecks, hoodlums, hooligans, ce n’è per tutti i gusti.»
«Ah, hooligans!… teppisti, insomma, delinquenti, canaglie… ma è orrendo! Così gli hanno dato fuoco!»
«Da voi non succedono certe cose?»
«Qualche volta. Suppongo li abbiate arrestati, questi yobbos… Ad Hollywood lo fate sempre.»
«Hu hu…» – cantilenò – «Spirito di merda. È vero che ogni tanto dai quartieri vicini, specialmente da Hampden, giovinastri che starebbero meglio ai lavori forzati, si fanno ben bene e poi si divertono a tormentare quei barboni, ma non c’era nessuna gang in giro da quelle parti stanotte. Pioggia e grandine per gran parte della notte. I ragazzi hanno fatto un giro ed è risultato che i soliti perditempo erano sparsi per i vari locali disco e pub della zona, fino al mattino. Sono sicuro che quello mente come una puttana.»
«Secondo me, finge. Forse è solo un po’ alticcio.»
«No. Non finge. L’alcol addosso ce l’ha eccome… e poi io…»
«Suppongo non lo ritenga colpevole.»
«E tu come fai a saperlo?»
Monticella guardava ora Guen, ora il tenente e sorrideva apertamente.
«Mi dica dottore,» – disse rivolta al medico – «Faceless, che corporatura ha?»
«Ohe! Credi che qui stiamo a perder tempo a misurare un codice rosso?»
«O. K., ma un’idea della sua stazza ve la sarete fatta. È un tipo grosso, medio, mingherlino, è giovane, vecchio…»
«Ma sono tutti rompipalle come te, là in Italia?» – poi, guardando il tenente col solito sorrisetto – «M’hanno detto che pesava abbastanza da dover smadonnare per togliergli quel che restava dei cenci che aveva addosso.»
«E l’età?»
«In quelle condizioni non è facile» – scorse le pagine dei vari referti – «… posso azzardare a dire fra i 40 ed i 50. »
«Bene» – esordì, rivolta a Sparks – «Lei è certamente una persona intelligente, Oliver. Erano solo in due, là sotto al viadotto. Faceless, poco prima di diventare senza faccia doveva essersi inzuppato di benzina. Poi si è gettato nel fuoco. È avvampato fra le fiamme…» – al vedere la faccia sorpresa di Sparks spiegò – «La vampata, tenente… una vampata accecante, da dover difendere gli occhi! Così vi ha fatto capire Dromy. Poi, poi… Dica un po’, fra il fuoco e la pozza d’acqua dov’è stato trovato, non avete notato una scia, una strisciata…»
«Tiri ad indovinare eh?»
«Io immagino.» – avrebbe detto Dagoberto, pensò – «Allora, tenente, sì o no?»
«Sì.»
«Oh! Dunque, il fuoco era sotto il viadotto e Faceless l’avete trovato in una pozzanghera all’aperto. Quindi quello, avvolto dal fuoco, deve essere rotolato verso la strada dove la pioggia torrenziale ha cominciato a spegnerlo. Dunque deve aver lasciato una traccia di questo rotolamento, una scia. Chiaro? Ah! Non era ubriaco vero?»
Sparks guardò il medico. Questi sbirciò fra le cartelle cliniche – «Non una goccia d’alcol o tracce di droghe nel sangue.»
«Bene!» – esclamò Guen – «Se era perfettamente sobrio come faceva quell’altro ad inzupparlo di benzina? Immagino non ci fossero pezzi di corda o fil di ferro addosso alla vittima, altrimenti sarebbe saltato subito agli occhi di chi lo ha spogliato… e lei dottore l’avrebbe menzionato, anche senza pensarci.»
«Ehi, ehi!» – gridò Sparks – «Che ti sei messa in testa? »
«Non era stato legato. Vale a dire che era libero di muovere gambe e braccia. È grosso e forte, mentre Dromy… 50 – 60 chili al massimo. Se ne deduce? »
«Ma insomma!» – gridò il tenente, ma Guen ne percepì pure l’aria divertita, quasi la spronasse a continuare.
«Semplice, se non è stato lui, è stato Faceless stesso. Suicidio.»
«Cazzate!»
«Si tratta di suicidio. Compiuto sotto gli occhi di un testimone, anche se poco attendibile, che ripete meccanicamente una tiritera che gli è stata inculcata alla bell’e meglio per portare su una falsa pista… e che io non permetterei la tirasse a lungo.» – concluse Guen un po’ divertita anche lei.
Mentre il tenente la guardava improvvisamente pensieroso, Guendalina provo a trarre delle conclusioni:
«Un atto estremo, volontario. La scelta di una morte atroce, ma cercata deliberatamente in modo da cancellare la propria identità… perché? Che gliene importava di essere poi identificato? Forse ha famiglia e non vuole che il suo gesto ricada su di loro. Fa anche pensare ad un sacrificio finale in nome di qualcosa, come fecero alcuni Bonzi durante la guerra in Viet Nam, e Jan Palach, il ragazzo Cecoslovacco che si dette alle fiamme in piazza Venceslao a Praga per protesta contro l’invasione sovietica. Oppure… oppure l’auto-espiazione per una colpa infame… Questo andrebbe d’accordo con l’idea di non infangare la famiglia. Chi indaga deve riflettere su questi moventi. Oh, quanto mi piacerebbe parlare con questo Dromy! È possibile tenente? Via!»
Sparks aveva appena preso fiato per replicare, quando Monticella ricevé un avviso dal cercapersone. Immediatamente chiamò il reparto segnalato. Dopo un breve scambio di parole si rivolse ai presenti:
«Una crisi.» – affermò, cupo – «Vi lascio.»
«Non è Faceless, vero?» – proruppe Sparks, mentre si accingeva a seguire l’amico – «Di’ che non è lui! Non ora! Non ancora!»
«Non ti muovere da qui!» – ingiunse il medico già sulla porta.
«Non fare lo stronzo! Forse prima di morire dice qualcosa!»
«Adesso chiamo la Sicurezza.» – nel dir così prese su il cellulare.
«Aspetta di capitare giù al distretto, Monticella dei mei coglioni!» – era davvero arrabbiato – «I sorci verdi ti sembreranno creature angeliche al confronto!» – uscì anche lui e, visto che ormai quello si era allontanato, gli gridò dietro: – «Te li farò passare su per il culo!»
Un’infermiera uscì precipitosamente nel corridoio e gli intimò di fare silenzio. Sparks la ripagò con un brutto gesto. Si rivolse poi all’agente di guardia e gli domandò bruscamente come si usciva “da quel posto di merda”.
L’infermiera, una giovane nera, entrò da Guen e le domandò se quel barbagianni l’avesse importunata. Guen ne approfittò per sapere qualcosa sulla sua situazione.
«È un bravo medico, Johnny, voglio dire il dottor Monticella» – le disse con aria materna – «ha detto che puoi stare tranquilla, gioia. »
«La diagnosi?»
Prese il plico che nella fretta il dottore aveva lasciato sul lettino vuoto adiacente al suo.
«Ecco qua, te lo traduco dal medichese: hai avuto un colpo di frusta, un trauma a livello della cervicale, sai cos’è? Causato da una manganellata sulla schiena fra la IV e la V vertebra toracica… Sei stata fortunata Guendalina Corelli. Primo, sembra che il tuo zaino ti abbia salvata da una paralisi agli arti, e poi pare tu debba ringraziare il freddo calato dal Labrador in questi giorni.»
«Capito. Vuoi dire che la sciarpa che portavo stretta al collo…» – nel dir così si palpò il collare.
«Brava. La botta alla schiena ti ha provocato quel colpo di frusta alla cervicale e Johnny dice che ti poteva andare molto peggio se non portavi anche quella sciarpa ben stretta. Ti dirò un piccolo segreto…» – continuò sbirciando fra le pagine del referto – «Potresti essere dimessa anche domani pomeriggio, ma siccome è Domenica… capisci?»
«Credo mi porteranno in una prigione.»
«Fatti coraggio. Meglio là che qua. Vedessi le robe che capitano qui!»
«Faceless.»
«Sì, poverino… ma almeno lui è tutto intero!»
La stessa infermiera fece da tramite fra lei e Gianna che venne a trovarla, ma le fu impedito di vederla. Seppe che il suo cellulare era stato perduto assieme alla macchina fotografica, durante i tafferugli. Un cellulare glielo avrebbe fornito lei, mentre per l’attrezzatura professionale era assicurata. Quanto alla sua situazione, lì a Baltimora, data la frequenza di crimini di tutti i tipi, i tribunali sono molto efficienti e non avrebbe dovuto attendere molto per l’udienza preliminare. Con l’occasione Guen si raccomandò di non dire niente a Dagoberto, almeno per il momento.
La mattina di Lunedì 25 Novembre fu dimessa. L’accusa le fu formulata nella stessa camera di degenza da un’agente ed una tenente in presenza di un funzionario del consolato italiano: “Partecipazione ad una manifestazione non autorizzata. Comportamento contrario agli interessi degli Stati Uniti. Affiliazione a banda armata. Violenza a pubblico ufficiale. Minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti”. Così era scritto nel verbale redatto dal procuratore distrettuale, sulla base di quanto riportato dallo stesso poliziotto che l’aveva arrestata e fatta caricare sull’ambulanza.
Fu immediatamente trasferita al Baltimore County Detention Center a Towson, un sobborgo ad una decina di chilometri dal centro della città. Vi avrebbe dovuto rimanere almeno qualche giorno, in attesa di comparire davanti ad un giudice.
Era molto preoccupata, anzi spaventata, perché aveva saputo da Gianna che soprattutto i bracci femminili erano particolarmente sovraffollati.
L’accoglienza fu molto formale e sbrigativa.
Dovette depositare tutto ciò che aveva in un contenitore. Al momento di tirar fuori il distintivo di giornalista datole dalla sua amica, lo tenne in mano per qualche secondo e lo mostrò alla guardia. Quella gli dette un’occhiata e disse con voce neutra: – «Giornalista… italiana… e allora? Puoi anche buttarlo, baby! Qua…» – sottolineò la parola – «non ti servirà maledettamente a niente.»
Quando ebbe finito le fu imposto di spogliarsi per indossare la divisa dei carcerati. Al suo imbarazzo la guardia, una biondona corpulenta le disse:
«Non vorrai che mi volti da un’altra parte, bellezza! Sbrigati! Ne ho viste così tante che se anche fossi lesbica mi verrebbe da vomitare!» – ma neppure sorrideva. Questo la sgomentò.
Dopo l’umiliazione delle impronte digitali e le foto con addosso il numero identificativo, fu accompagnata in una cella dove vi erano altre detenute, tre nere, piuttosto giovani, più o meno della sua età.
“In effetti non sono razzisti da queste parti” – le venne di pensare ironicamente – “Per loro neri o italiani o forse semplicemente forestieri, sono la stessa cosa.” – – poi rifletté che il razzismo è contagioso, perché quel pensiero già conteneva in sé il seme di un razzismo strisciante.
La cella era pulita e ben tenuta, ma, come aveva temuto, piccola e non abbastanza aerata per quattro persone – non si poteva non sentire l’odore dei corpi. Ci fece presto l’abitudine. Ciascuna delle tre detenute era lì come lei in attesa di giudizio, ma per reati comuni: furtarelli, risse, percosse. Lei invece vi si trovava per un reato federale il che le valse l’immediata offerta di sigaretta, un atteggiamento di rispetto e distacco, ma anche neri pronostici riguardo alla pena da scontare. Dovette fumarsela sebbene odiasse il fumo.
Il giorno dopo l’accompagnarono in una saletta per incontrare l’avvocato messo a disposizione dal consolato italiano. Era manieroso, freddo come il marmo ed alquanto altezzoso. Fece un brevissimo accenno al suo essere italiano, senza che Guen potesse scorgere la più insignificante traccia di sorriso sulle sue labbra. Cominciò col consultare l’orologio da polso ed a sciorinare le accuse.
«Ma io…» – provò a dire Guen.
«Lei era là e si è fatta beccare. Negare non serve.» – affermò alzando la voce – «Conviene dichiararsi colpevoli ed implorare la clemenza del giudice per vedere se la lasciano libera su cauzione in attesa del processo. L’importo della cauzione potrebbe essere temporaneamente anticipato dal consolato.»
Guen non ci vide più.
«Ascoltami bene scimmia rivestita. Ti dico che io non ho usato violenza a nessuno e tanto meno ad uno sporco sbirro bugiardo! Io non ho minacciato la sicurezza di nessuno Stato e non sono affiliata ad un cavolo di niente e men che meno ad una banda armata!»
Quello la guardò senza battere ciglio. Fra le sue carte prese un modulo prestampato, le porse una stilografica placcata in oro e le disse:
«Firmi qui la rinuncia alla mia difesa.»
Ci rimase un po’ male. Forse aveva assecondato un gioco subdolo e indegno; ciononostante per orgoglio firmò senza dire una parola di più.
«Suppongo lei abbia almeno 20 mila dollari per un avvocato diverso da quello d’ufficio» – le disse con sussiego – «e… diciamo… un cento mila per la cauzione… se mai la lasceranno libera prima del processo. Dopo tutto lei è ritenuta un soggetto pericoloso.»
Quando giunse la guardiana, si alzò, in silenzio, e si avviò all’uscita.
L’avvocato d’ufficio, un giovanotto alto dalla faccia gioviale e dall’aria pulita, le strinse la mano e dichiarò di chiamarsi James Alcott Weber, ovvero Jimmy. Seduto a lei di fronte, si slacciò l’orologio da polso e se lo mise davanti. Su un taccuino segnò l’ora. La guardò e le fece un ampio sorriso.
«Ehi!» – esordì – «Sei una vera italiana?… Uh! Guarda guarda… detective privata e temporaneamente giornalista!»
Guen cominciò a dare segni di insofferenza.
«Ah… Vedo che da una settimana sei affiliata alla “Independent Press Association” di New York City… qualcuno importante deve averti presentata, altrimenti…»
«Vogliamo venire al punto, Jimmy?»
«Vedi Guen-da-lina… – è così che si pronuncia il tuo nome?»
Ottenne una smorfia di esasperazione.
«Ho capito, ho capito.» – si affrettò – «Volevo soltanto dirti che far parte dell’I.P.A. potrebbe esserti utile. Ma veniamo al punto: le accuse sono gravi, è vero, ma bisogna riflettere. Intanto non ti hanno trovato armi addosso, né droga, né eri dopata in alcun modo.» – tippettò l’indice sul plico proveniente dall’ospedale – «Poi dobbiamo considerare, primo: il giudice sarà una donna; secondo: è una fervente democratica e non può vedere Trump; terzo: fra gli arrestati di quel giorno ci sono almeno due figli di papà…papà grossi!» – sfregò ostentatamente l’indice ed il pollice per significare “denaro” – «e quarto: compariranno prima di te».
Mise il petto in fuori compiaciuto di quanto aveva appena detto. Poi, visto lo sguardo scettico di Guen:
«Ah, quinto: si dà il caso che io sia ritenuto un avvocato brillante, destinato a fare carriera… Lo hanno detto i miei professori!»
«Insomma, quale sarà la linea di difesa?»
«Non si tratta ancora del processo. Nel corso dell’udienza preliminare cercheremo in tutti i modi di declassare il reato da grave a quello che qui viene chiamato misdemeanor, un reato minore. Ammetteremo cioè il reato minore: partecipazione ad una manifestazione non autorizzata pur senza alcuna intenzione di nuocere. Aggiungerò che hai capito di avere sbagliato, ma quando ti sei messa in mezzo ai manifestanti hai pensato soltanto a fare il tuo lavoro. Hai pensato, erroneamente s’intende, che il tuo incarico ti consentisse di osservare quella manifestazione dall’interno. Per questo sei disposta a chiedere pubblicamente scusa alla corte.»
«E delle accuse di violenza, partecipazione a banda armata…?»
«Ti dichiari non colpevole. Voglio vederli quelli della polizia a dimostrare quanto affermano! E poi ho qui il referto dell’ospedale… ah, fra l’altro, devi avere degli amici là.»
«Perché?»
«Perché si sono sbilanciati. Capita raramente, sai. Senti cos’hanno scritto a conclusione della relazione clinica: “Il trauma subito è stato causato dal colpo di un corpo contundente di forma cilindrica,” – vale a dire un manganello – “inferto con particolare violenza da dietro, che ha interessato la IV e V vertebra toracica, come si evince dai referti radiografici 1, 2 e 3. Il referto radiografico 4 mostra una perdita della normale lordosi cervicale, quale effetto collaterale del colpo di cui sopra, dello stesso tipo di quello prodotto in auto da un violento tamponamento.” – questo metterà in cattiva luce la polizia perché farò risultare chiaro che sei stata aggredita alle spalle, cioè non eri in grado di opporre resistenza. Ciò influenzerà il giudice in tuo favore. Se il crimine viene declassato a reato minore potrai essere libera senza cauzione ed avrai il processo entro 60 giorni… non so se mi spiego!»
«Sarò comunque prigioniera degli Stati Uniti.»
La guardò interrogativamente, poi sorrise.
«In ogni modo,» – disse – «Tieniti pronta per dopodomani Giovedì 28 ad un quarto alle 8 in punto. Il furgone partirà alle 8. Porterò io i tuoi abiti in tintoria. Firma qui, se ti vado bene come difensore… e qui per farmi avere i tuoi abiti. Fai in modo che il tutore cervicale si veda bene. Fai vedere che sei un po’ sofferente ma che non vorresti darlo a vedere. Devi apparire linda e pulita, una ragazza di buona famiglia, educata e… soprattutto remissiva.» – la guardò ironico ed aggiunse – «Insomma, esattamente come sei.»
Guen prese su l’orologio dal tavolo e fece l’atto di scagliarglielo addosso.
Alle 8.00 di Giovedì venne una guardia a prelevarla dalla cella. Alle 10.20 era in piedi accanto al giovane avvocato nel momento in cui veniva aperto il suo caso in una delle aule per le udienze preliminari della Circuit Court per la città di Baltimora. Al suo ingresso in aula riconobbe Giovanna nella prima fila del pubblico. Un uomo fra i presenti agitò una mano per salutarla, ma non capì chi fosse.
L’accusa, sostenuta da un rappresentante del Procuratore Distrettuale lesse una dichiarazione del Dipartimento di Polizia nella quale si affermava che, esaminate le circostanze in cui si era svolto l’arresto dell’imputata, venivano mantenute soltanto le accuse di partecipazione a manifestazione non autorizzata e comportamento contrario agli interessi degli Stati Uniti.
Il giovane avvocato fece presente che l’imputata partecipava alla manifestazione non quale sostenitrice, ma in qualità di fotoreporter ecc. ecc. Poi passò a dimostrare che non sussistevano motivazioni per l’accusa più grave. Mostrò alla corte alcuni degli articoli più significativi firmati dalla giornalista per la quale l’imputata stava svolgendo un normale servizio fotografico. Illustrò come gli articoli comparsi su un’autorevole rivista italiana ed altri sull’edizione internazionale di “Life” riflettevano una genuina ammirazione per gli Stati Uniti d’America, e in particolare per quella che è sempre stata la politica estera americana, il modo in cui gli americani onorano il Creatore, e bla bla bla. La fotoreporter, accettando di lavorare per l’autrice di quegli articoli non poteva non condividerne l’orientamento politico.
L’esitazione della giudice fece correre brividi su per la schiena di Guendalina. Infine il verdetto: “non luogo a procedere”.
Guen abbracciò il giovane avvocato e gli appioppò un bacio in fronte.
Com’è uso da quelle parti, dopo qualche firma fu libera. Al momento del commiato si strinsero la mano e Jimmy le porse il suo biglietto da visita.
«Ricordati che ho anche degli ottimi investigatori, capaci di tirarti fuori dai pasticci.»
«Di quali pasticci vai farneticando?»
«Di quelli nei quali prima o poi ti caccerai, se ho ben capito il tipo!» – esclamò fra il serio ed il pungente.
Fu avvicinata da un tizio in impermeabile che lì per lì non riconobbe. Poi capì che era quello che dal pubblico l’aveva salutata al suo ingresso in aula. Era il tenente Dick Oliver Sparks, con i suoi baffetti ed un mozzicone di sigaro spento in bocca, accigliato e teso come lo aveva conosciuto in ospedale.
Lo presentò al giovane avvocato. Al vedere questi così raggiante e compreso nel ruolo del vincitore, Sparks non poté trattenersi dal dire:
«Sei fortunato, giovanotto!»
Quello lo guardò stupito.
«Vedi ragazzo…» – temporeggiò – «non tutti gli imputati che difenderai potranno disporre di santi all’inferno.»
«Santi… all’inferno? Non… non capisco.»
«Mbeh, nessuno giù al distretto penserebbe mai di essere in paradiso. Afferrato il concetto?» – poi, rivolto a Guen : – «Non so come sia stato il vitto là a Towson, ma downtown conosco un ottimo pub… certo non sarà un pranzo in piena regola… però, che ne diresti se tu ed io…?»
«Uno spuntino, O.K., ma sta arrivando la mia amica Giovanna.» – indicò una giovane che procedeva speditamente verso di loro, arrangiandosi bene con le stampelle.
«Oddio! A pranzo con due italiane!» – e neppure sorrideva.
Perché quell’uomo era sempre burbero e astioso?
Seduti ad un tavolino in un pub in pieno centro di Baltimora, Guen, da dietro la carta del menù gli parlò.
«Non che mi sia dispiaciuto, s’intende, ma vorrei tanto sapere sempre che sia vero, per quale dannata ragione ti sei messo a farmi una grazia… dall’inferno, per giunta.»
«Me lo sono domandato anch’io. Ho pensato che potresti farmi un piccolo favore.»
«Fai molta attenzione Guen.» – scherzò l’amica – «Secondo me ci sta provando.»
DOS le rivolse uno sguardo arcigno e minaccioso.
«Donne italiane!» – esclamò – «Mi domando se sto facendo bene a fidarmi.»
Guen avrebbe voluto rispondere per le rime alla “Sudicia Vecchia Puzzola”, ma a causa della sua solita curiosità, si trattenne.
«Quale piccolo favore, Oliver?» – anche se ironicamente, gli sorrise e passò ad ordinare un hamburger al formaggio ed una coca alla frettolosa cameriera appena sopraggiunta.
«Dovresti fare tu delle domande a Dromy.»
«Dromy, il barbone che…»
«Esattamente.»
Fece un cenno all’amica per dire che le avrebbe spiegato tutto poi.
«Vuoi dire che l’avete trattenuto per tutto questo tempo?»
«Ma no! Andiamo a trovarlo, diciamo così, a casa sua.»
«E speri che si sbottoni? Per rispondere a tono deve essere sobrio, però se non beve non parla. Come pensi di risolvere la questione?»
«L’hai detto tu che forse finge con noi della polizia. Ci proviamo. Non mi conosce. Tu farai da giornalista…»
«Tu pensi che con l’idea di finire su un giornale… E tu che fai, scatti le foto?»
«Faccio il tuo assistente.»
«Mhmm, non funzionerà. Quello, ubriaco o no ti sgama subito. Ti faccio una proposta: dimmi come trovarlo e ci vado io.»
Per la prima volta aleggiò un sorriso, ancorché sarcastico su quella sua bocca contratta.
«Nel “Bottom”? Tu pensi di andare giù nel Bottom e tornare sana e salva?»
«Ho capito, è una slum area. E di Faceless, si sa niente?»
Sparks scosse la testa.
«Che dice Monticella, sopravvivrà?»
«La quotazione, stamani, era 5 a 1 che non ce la farà.»
«Vuoi dire che hanno il coraggio di fare scommesse… Nooo! È mostruoso.»
«In America tutti scommettono su tutto.» – intervenne Giovanna – «Mi pareva di avertelo detto.»
«Che male c’è?» – disse Sparks.
«Oh, niente! Monticella ha scommesso pro o contro? Metti che abbia scommesso contro…»
«Non fare la ragazzina. Nessuno coinvolto nelle cure può scommettere.»
«Non fare tu il ragazzino. T’informo che esistono le soffiate a pagamento. È solo questione di immaginazione.»
«O. K., Mrs so-tutto-ma-tu-no, lasciamo perdere. Hai finito con quello stupido hamburger?»
Erano da poco passate le 13. Chiamarono un taxi per Giovanna.
Il tragitto verso la meta durò una ventina di minuti. Guendalina fu sorpresa dal fatto che da aree verdi, pulite e ben tenute, vistosamente agiate, magari super-addobbate con fronzoli natalizi, basta girare un angolo o traversare una strada che subito si piomba in una zona abbandonata al degrado, con gente, per lo più neri, che dorme sui marciapiedi e ragazzacci che berciano contro le auto di passaggio.
Finalmente imboccarono la Union Avenue che altro non è che una strada stretta e dissestata. Dopo alcune deviazioni raggiunsero una zona del cosiddetto Bottom in cui la Union andava a morire costeggiando imponenti piloni in cemento armato a sostegno della Jones Expway. La strada sembra infognarsi fra i sostegni del viadotto ed un enorme, lunghissimo edificio fatiscente, di mattoni rossi, alto fino al piano autostradale, sormontato a sua volta da due altissime ciminiere diroccate.
Dall’altra parte del viadotto vi sono mura e vegetazione incolta, mentre dall’altro lato del rosso edificio corrono i binari di una ferrovia.
Qui, dell’atmosfera natalizia che gli americani rendono pervasiva, invasiva se non addirittura incombente nei quartieri bene della città, non ci arrivava neppure l’odore.
Il degrado intorno ricordò a Guen che uno dei significati della parola “Bottom” è anche “il fondoschiena”, tanto per essere carini.
Si era levato un vento freddo ed il cielo si era fatto minaccioso. In quella luce livida, il luogo appariva sinistramente deserto.
L’edificio, spiegò Sparks, è quanto rimane di una vecchia fabbrica di pneumatici, la Schenuit Rubber Factory, abbandonata e recentemente devastata da un paio d’incendi probabilmente innescati da stufe e fuochi di fortuna accesi dagli emarginati che la occupano. Le mura sono tempestate da grandi graffiti più o meno osceni, intersecati da cavi elettrici pendenti e tubature mozze. I numerosi finestroni o sono malamente murati o screziati da spezzoni di vetro.
Laddove la vecchia fabbrica giunge a ridosso dell’autostrada, sotto il viadotto, fra due ordini di piloni si vedeva una recinzione a strisce gialle percorse dalla scritta: “CRIME SCENE DO NOT CROSS”. Guen a malincuore gettò uno sguardo oltre. Si vedevano i resti nerastri un grosso falò. Il cuore le si fermò per un attimo, al vedere la traccia provocata dal corpo di Faceless, mentre avvolto dalle fiamme rotolava lentamente da sotto il tetto autostradale. C’era ancora la grande pozza d’acqua scura dove era stato trovato il corpo mezzo bruciato del poveraccio.
Il tenente lasciò la macchina davanti ad una cancellata in lamiera arrugginita nella quale si apriva un varco, con una specie di sportello cigolante al vento, al di là del quale non si vedeva che il buio.
«Adesso fai molta attenzione Guendalina. Guarda bene dove metti i piedi e stai sempre vicino a me.» – le intimò, mentre accendeva una torcia elettrica.
«Hai anche una pistola?»
«È ovvio.»
S’infilarono attraverso quell’apertura.
Una volta dentro Guen impiegò quasi un minuto per rendersi conto dell’ampiezza degli spazi, come pure di una quantità di rottami, pietre e sudiciume di ogni tipo ammassato qua e là su di un pavimento accidentato. Aleggiava un fetore di sporco e di escrementi. Ebbe la netta sensazione di numerose presenze, occhi che li osservavano. Le sembrò di intercettare voci soffocate, parlottii.
«Dromy!» – chiamò Sparks. La voce tonante echeggiò nella vastità dell’ambiente – «Dromy, vecchio ubriacone, vieni fuori. Ho una sorpresa per te! Diventerai famoso.» – attese parecchi battiti del cuore – «Non aver paura. C’è qui una signora… È di un giornale… vuole parlarti.»
Improvvisamente Sparks si volse ed illuminò due esemplari di Homo Sapiens in giubbotti di pelle nera, spalle larghe, piazzati a gambe divaricate che lo guardavano con occhi porcini. Una luce si accese dietro di loro.
«Spegni quella maledetta torcia, pezzo di merda.» – la voce di uno di quei figuri era giovane, di una calma che metteva una paura profonda, viscerale.
Sparks, mantenendo alta la testa, eseguì.
«Siamo del Daily Record, giornalisti.» – disse.
«E allora?»
«Vogliamo parlare con Dromy. Ha qualcosa da dire su quello che ha preso fuoco Venerdì notte…»
Il silenzio fu rotto da qualche movimento dietro i due individui. Comparve un uomo che non arrivava neppure alle loro spalle, occhi vividi, calvo, baffetti biondi, ispidi, sopra una bocca filiforme, sorridente.
«Dossie!» – anche la voce dell’ometto era piccola, un miagolio – «Perché vieni a cacciarti nei guai proprio qui?»
Il tenente parve davvero sorpreso.
«Semplice, non immaginavo… Ma che ci fai nel Bottom, eh Whelpy? Non ci sono che dei poveracci.»
«Non sono affari tuoi. Tu, invece…»
«Sono venuto in pace… per aiutare una signora…»
«Questa qui? Mhmm, bella… saporita!» – la guardò ostentatamente da capo ai piedi – «Ma che ci fa con quel collarino? Vuoi allungarle il collo Dirty Old Skunk?.»
«Non sono cose che ti riguardano.»
«In pace sei venuto, dici…»
I brividi che l’avevano percorsa in tribunale prima della sentenza erano piacevoli formicolii, al confronto di quelli che aggredirono “la signora” in quel momento.
Un cellulare si fece sentire insistente.
«È il tuo, Dossie. Devi rispondere, metti che venga da quel covo di vipere del distretto. Stai attento a quello che dici, però. Non voglio che ora ti capitino delle noie per causa mia.» – nel dir così, lanciò un’occhiata all’uno e all’altro dei suoi gorilla.
Guardando ostentatamente in faccia i tre figuri, Sparks mise lentamente una mano sotto il risvolto della giacca. Un paio di click clack e due grosse pistole gli furono puntate contro.
Il cellulare continuava a squillare.
«Non sono un prestigiatore, Whelpy. Devo mettere le mani sull’aggeggio per rispondere.»
«Giusto. Fai attenzione, però.»
Gli occhi dei due sgherri ardevano come la brace.
«Sparks.» – disse il tenente nel cellulare.
Si udirono appena delle voci metalliche.
«Nessun problema Gary, è tutto O. K.» – disse tranquillamente.
Altre voci metalliche.
«Richiamo io.» – interruppe la comunicazione e sempre molto lentamente ripose il cellulare.
«Bravo» – disse l’ometto – «Ora tu sai, Dossie, che io non sono il tipo che approfitta… tu capisci… se lo fossi non faresti in tempo neppure a mettere la manina sotto l’ascella che… te ne rendi conto, vero?»
«Lo so.» – replicò Sparks.
«Del resto sai bene che i miei non possono mollare un bocconcino come quella senza un minimo di compenso. Sono giovani, scoppiano di energia…»
«E allora?»
«Intanto abbassa quella cazzo di cresta e di’: “prego Whelpy, cosa posso fare per te?”»
Sparks esitò a lungo, poi accusando uno sforzo non indifferente: – «Prego… Whelpy, ehm… cosa caz… cosa posso fare per te?»
«O. K. fanno un centone per Johnny» – indicò uno dei due – «ed uno per Bud… È perché sei venuto in pace. Per me non voglio niente… Ah, c’è Dromy, sai lui ha bisogno di bere… tanto bisogno… Ci penso io. Può essere che con un 50one… Poveretto. C’è rimasto male di Ezy, sai.»
«Ezy?»
«Prima i centoni.»
«Li ho io.» – propose Guen.
«Lascia stare.» – disse Sparks.
«Sei generoso sudicia puzzola, ma lascia che sia la signora a prendere il tuo portafoglio, O. K.?»
«Sei diffidente.»
«Esperienza… Su da brava babe» – guardò Guen con un sorriso viscido che prese ad appassirsi dal momento in cui si udì il suono di sirene della polizia in avvicinamento.
Guen si volse verso l’entrata e quando tornò a guardare davanti a sé non vide nessuno. La luce si spense. A mala pena udì il miagolio del malvivente gridare da lontano: – «Te la farò vedere io la pace, Sparks!»
In breve, era accaduto che il tenente, per non farsi riconoscere come poliziotto, non aveva acceso l’interfono dell’auto. Così l’avevano chiamato invano, fino a cercarlo sul cellulare.
«Non ti ho sentito chiamarli.» – rimarcò Guen mentre delle voci dietro fasci di luce chiamavano Sparks.
«Sono qua!» – gridò.
Poi, rivolto a Guendalina: – «Non c’è un “Gary” al distretto. “Gary” vuol dire: intervenite d’urgenza a sirene spiegate.»
«Come sapevano che eri qui?»
«Ogni nostra auto ha un localizzatore GPS. Sanno sempre dove ci troviamo. Non lo sapevi? Sei un po’ scrausa come detective, baby.»
«Dopo tutto questo exploit, mi sa che da queste parti ti sei sputtanato, Dossie.» – gli rimandò Guen.
«Vero,» – ammise Sparks – «addio a Dromy.»
«E poi quel tizio, Whelpy, potrebbe tenderti un agguato se torni qua da solo.»
«Whelpy, “il lupacchiotto”… È improbabile. Qui non c’è trippa per loro. Erano davvero qui per caso, in fuga da qualche rivale della stessa risma.»
Nel frattempo 6 o 7 agenti perlustravano la zona, armi in pugno. Qua e là si affacciavano titubanti dei barboni. Fra loro c’erano un paio di ragazzetti forse di 10 – 11 anni.
Gli agenti non li degnarono neppure di un’occhiata.
Il vento soffiava a raffiche, la porta di ferro sbatteva e sferragliava. Cominciò a piovere.
«O. K., ragazzi,» – comandò Sparks – «Torniamo alla base. Ormai, per beccare il lupacchiotto ci vorrebbe una vera e propria operazione militare.»
Uscirono.
Un ragazzetto, appoggiato ad un lato della porta, guardò mestamente Guendalina che se ne andava.
Giunta all’auto vide un foglietto vicino alla ruota anteriore destra, tenuto fermo da un sasso. Lo raccolse e lo fece sparire in una tasca. Guardò verso la porta. Il ragazzino le lanciò un’occhiata e sparì. Ormai pioveva a scroscio.
Fu depositata a casa dell’amica Giovanna. Sparks neppure scese dall’auto. Era immusonito. I saluti furono appena accennati.
Sul foglietto, una specie di pizzino, tutto gualcito e umido per qualche goccia d’acqua, in stampatello, apparentemente buttato giù in fretta, era scritta una domanda con alcune parole in slang ed un paio di errori di ortografia:
“È ancora vivo Ezy? Lui è buono con noi scugnizzi. Bobby.”
Quello “scugnizzo” non era quello che la guardava mentre lei se ne andava? Aveva su per giù l’età di Damiano. Quella vita, ancora acerba, alla deriva, la commosse. Dovette trattenere le lacrime. Voleva rivederlo, anche se le gambe le tremavano per lo sgomento, anche se poi doveva dirgli che Ezy stava morendo.
Erano circa le 14.30. Malgrado il temporale, avrebbe avuto ancora un’ora, forse un’ora e mezza prima di buio. Si fece forza. Con una scusa si fece prestare l’auto dall’amica, guardandosi bene dal dirle dove si sarebbe recata. Dagoberto, affacciato ad una finestrella della sua mente si teneva disperato la testa fra le mani. Per tutto il tragitto verso il Bottom continuò parlargli, a cercare di convincerlo che lui avrebbe fatto la stessa cosa per un Damiano finito in un orribile ghetto come il Bottom.
Giunta a destinazione, la pioggia veniva giù assieme a del nevischio sottile e bianco contro il nero del viadotto dell’Expway. Si rinfagottò nell’eskimo ed uscì. Lasciò l’auto davanti alla porta rugginosa, accese una torcia e senza la minima esitazione si avventurò all’interno di quello spazio oscuro e maleodorante.
«Bobby!» – chiamò ed attese.
Passò un buon minuto. Sentiva voci soffocate, bisbigli, qualche movimento qua e là. Con la torcia esplorava intorno, ma la luce giungeva soltanto a pochi metri da lei. Cominciò a sentirsi insicura. Non stava andando come previsto. Questo Bobby non si faceva vivo. Intanto i rumori cominciarono ad assomigliare a dei calpestii. Inquadrò prima dei piedi, poi delle gambe… e poi si presentarono. E non erano ragazzini. Si trovò circondata. L’uscita era preclusa da un paio di ceffi dall’aria torva.
«Soltanto Bobby.» – provò a dire, cercando di nascondere la paura che ormai la stava attanagliando – «Vuole sapere di Ezy… è in ospedale…»
Si erano fermati ad un paio di metri da lei. C’era troppo silenzio. Non le staccavano gli occhi di dosso. C’erano anche un paio di donne, ma il resto erano uomini, barbuti, vestiti di stracci. Si disse che sì, apparivano minacciosi, ma quasi sicuramente erano dei barboni innocui, animati soltanto dalla curiosità. E se non era così?
Offrire del denaro? Dar loro tutto il denaro che aveva? Si era portata soltanto un paio di centinaia di dollari, ma cosa avrebbero preteso poi? Il portafoglio? L’orologio, il cellulare… i vestiti! E poi? Dio mio, Dio mio!
Un tizio, alto, sgangherato, si fece avanti. Guen cominciò ad arretrare, ma si rese conto che sarebbe finita fra le braccia di quelli dietro di lei. Si fermò e lo guardò dritto negli occhi. Quello, fulmineo, le strappò la torcia di mano e gliela puntò contro. Ora era pure abbagliata. Sentì una mano ossuta posarsi su una spalla. Dentro le si scatenò un turbine d’impulsi che la spingevano a reagire con violenza, mentre altri la bloccavano in una morsa d’acciaio. Si sentì perduta.
Intravide una luce accendersi alle spalle di quella piccola folla di bruti.
La luce parlò con una voce femminile, profonda, calda.
«Piantatela di spaventare quella ragazza!»
Insperatamente quella gente cominciò ad arretrare, senza voltarsi, in silenzio, fino a scoprire una figura alta, massiccia, in una veste rossastra che le giungeva fin quasi ai piedi. Era una nera imponente, la capigliatura nerissima, ben tenuta a treccine. Al collo portava un’ampia collana fatta con cianfrusaglie di vario tipo e colore.
«Datti una calmata, piccola. Qui nessuno può toccare una femmina, se non lo dico io.» – sembrò guardare gli astanti uno ad uno – «Ed io, con questa qui, non lo dico. Chiaro? È tornata qui da sola, senza i mastini. È coraggiosa. Mi piace. Su da bravi, alle vostre baracche!»
Lentamente, ma senza abbassare la testa, cominciarono ad allontanarsi.
La nera rimase ferma, impettita.
“Forse è alta come Dagoberto… forse più alta.” – giudicò Guendalina, mentre sentiva il sangue scorrere più tranquillamente nelle vene.
«Avanti.» – la incitò la giunone nera – «Avvicinati. Di’ bene a Black Mama cosa cazzo sei venuta a fare nel purgatorio?»
Guen le si avvicinò. Da quella donna emanava rudezza, ma anche un’indefinibile benevolenza, autorità indiscutibile, ma anche affidabilità.
«Ero al Johns Hopkins,» – nel dir così si toccò il collare ortopedico – «quando hanno ricoverato quello che qui chiamate Ezy. Pare sia irriconoscibile. Il suo volto è distrutto. Lo chiamano Faceless.»
«Purtroppo lo immaginavo. Vai avanti.» – la incoraggiò.
«Ecco, forse ha una famiglia, una madre, un padre… una compagna, chissà? Ha cercato di suicidarsi. Non è uno di voi, vero?»
«È comparso qui da… un mese? O poco più.»
Guen le mostrò il pizzino.
«Ecco, credo sia stato Bobby…»
La nera annuì.
«Qui ha scritto che vorrebbe sapere di Ezy.»
Black Mama la scrutava, statuaria.
«E poi, non so come spiegarmelo» – si fece forza – «ma vorrei sapere chi è Ezy e perché si è gettato nel fuoco. Sai, io sono italiana… là, a Roma, faccio la detective, privata, la curiosità è la molla che mi fa fare bene il mio lavoro. Me la porto sempre dentro.»
«Non male.» – accennò un sorriso – «E ti chiamano…?»
«Guendalina.»
«Guen-da-lina» – ripeté come se volesse memorizzare il nome – «O. K. Guendalina, seguimi. Ezekiel non è uno dei nostri, ma speriamo lo possa diventare. Deve essere un buon padre. Sta insegnando a certi di noi come si trattano i ragazzini.»
Si erano accese molte luci che illuminavano solo in parte i grandi spazi di quello che era stato un enorme capannone industriale. Black Mama si avviò verso il niente in mezzo a residui di strani macchinari.
«Fai attenzione, gli spezzoni di ferro possono ferirti. Sai, qui non abbiamo molte medicine.»
Dovettero evitare delle pozzanghere alimentate dalla caduta di gocce d’acqua provenienti dal nero soffitto. Faceva freddo.
Giunsero ad una sorta di capanna legno cartone e lamiera ondulata. L’entrata era decorata tutt’intorno con dei pendagli di cartone dipinti con strane figure che ricordavano maschere africane, rudimentali bambolette di stoffa, tipiche dei riti woodoo ed anche qualche piccolo teschio che Guen giudicò essere di cane.
L’interno alloggiava cianfrusaglie ed amuleti, una candela accesa davanti a quella che sembrava una strana maschera, e soprattutto c’era una stufa elettrica.
Guen la guardava meravigliata e Black Mama disse che era un loro diritto prendere la corrente dai fili che attraversano il loro territorio.
Una vecchia cenciosa era accoccolata davanti alla stufa. Black Mama si sedette in un’ampia poltrona in finta pelle mezza strappata. Si rivolse alla vecchia in un idioma incomprensibile. Guen captò soltanto il nome “Bobby”.
«Siediti, Guendalina.» – aggiunse – «Qui è pulito quanto basta… poi a casa tua farai il bagno.»
Non si poteva rifiutare. Guen pregò in silenzio che non le offrisse niente da bere o da mangiare. Avrebbe dovuto rifiutare.
La vecchia tornò quasi subito accompagnata da un ragazzino nei suoi bravi cenci ed in verità alquanto sporco. Aveva in mano la torcia di Guen. Gliela porse. I loro sguardi s’incontrarono e di nuovo sentì le lacrime affacciarsi. Allungò una mano e sfiorò una guancia di quello che per un istante le sembrò proprio suo figlio.
Black Mama lo chiamò a sé e lo prese sulle ginocchia.
«Bobby ed Ezy si vogliono un gran bene.» – commentò «Di’ a Bobby come sta.»
«Mi spiace tanto tanto, Bobby, ma Ezy è molto malato. Molti medici lo stanno curando. Sai che puoi fare? Più spesso che puoi, in qualsiasi momento, pensalo sano e forte com’era prima che cadesse nel fuoco. O. K.?»
Il ragazzino annuì. Black Mama le sorrise ed accarezzò quella testolina cespugliosa che aveva in grembo.
Sopravvenne in Guen il vento di quella curiosità che l’aveva pian piano trasformata in appassionata investigatrice.
«Ma ora dimmi qualcosa di Ezy, vuoi?» – domandò.
Il ragazzino fece cenno di sì con la testa, ma non parlò.
«Bobby ancora non sa parlare.» – intervenne Black Mama continuando ad accarezzarlo.
Il ragazzetto si sciolse delicatamente dall’abbraccio e scese dalle sue ginocchia. Prese Guen per un braccio come volesse tirarla su. S’incamminarono mano nella mano nella semioscurità di quella immensa caverna .
Passarono davanti ad alcune baracche, alcune ben tenute altre di uno squallido da intenerire un rettile. Giunsero davanti ad un riparo sconquassato. Nonostante tutto, dentro c’era una lampada accesa. Bobby bussò sul cartone. Si sentirono dei grugniti, poi, inframmezzata dalla tosse, una voce li invitò ad entrare.
Solito problema per sedersi. Bobby si accomodò per terra dove si trovavano detriti da inorridire e pure maleodoranti.
«Sei tornata, bella signora!» – la voce era un po’ raschiante.
«Dromy?»
«Sono io costui. E tu?»
«Guen.»
Il barbone, di età indefinibile, stava seduto su qualcosa. Era barbuto di una lanugine brizzolata, incolta e giallastra. Quanto alla capigliatura, sembrava quella di un Cristo mai pettinata dai giorni di Betlemme.
«Lo so, Guen, non sono bello a vedersi.» – raspò – «Comunque devi sapere che io sono sempre così… non sono mai ubriaco. Vogliamo dire thirsty, squiffy, pixy?»
«Ho capito.»
«Ma loro credono di sì!» – Nelle sue mani comparve una bottiglia bisunta con dentro un liquido giallastro – «E io mi diverto un mondo. Ah, questo?» – alzò la bottiglia – «Lo chiamiamo “Spirito del Bottom”. Si fa qui a Schenuit Cove… È a chilometri zero!» – rise sguaiatamente e tirò giù un gran sorso di quella porcheria – «Su dai! Prendine anche te. Fa bene all’anima!»
«Non offenderti, Dromy, sono completamente astemia.»
«Peccato! Per te. Per me è economia.» – risata e sorso.
«Che mi puoi dire di Ezy, cioè di Ezekiel?»
«Qua si dice che sia vivo. È vero?»
Guen fece di sì con la testa.
«Come sta? Dopo quello che ho visto sono sicuro che starebbe meglio morto.» – si fece un buffo segno della croce.
«Sta male. Ma tu, che hai visto?»
«Era un po’ di giorni che se ne stava zitto e musone. Ma prima di cucirsi la bocca, ogni tanto tirava fuori la storia di una aereo precipitato.»
«Che storia?»
«Che ne so? Borbottava fra sé e sé.» – si gratificò con un sorsata di quella robaccia – «Mi sembra di averlo sentito dire qualcosa come: “Il Cielo mi ha parlato, o l’Inferno mi ha chiamato… 180 morti, ma non è colpa mia.”»
«Non gli hai chiesto cosa voleva dire?»
«Sissignora. Certo che sì.»
«E?»
«Mi ha detto di farmi i cazzi miei, che non era roba per le orecchie di nessuno.»
«E basta?»
«E basta. Ripeteva le stesse cose… “non è colpa mia, non è colpa mia”… ah, una volta mi ha guardato in faccia e ha detto che Dio o il Diavolo che fosse, poteva scegliere un altro modo per dirgli quel che aveva da dirgli.»
«Nient’altro? Dai Dromy…»
«Ti ho già detto di no. Parlava soltanto con i ragazzini.» – con la bottiglia indicò Bobby – «Quella notte sembrava fatto, ma io so che non lo era. Mi ha detto: “Dromy, amico mio, qualunque cosa mi succeda stanotte devi dire che sono stati gli yobbos, capito? Gli yobbos! Quei maledetti teppisti che da Hampden vengono qui a tormentare voi poveri barboni.” Ah ah! “Voi barboni!”. E lui? Cos’è, eh? Me lo vuoi dire? Però… però ha ragione. Lui non è come noi.»
«Dimmi bene di quella notte, Dromy»
Dopo un paio di sorsi, tirò un sospirone e continuò.
«Eh? Quella notte? Già. Son cose che si vedono solo in guerra, accidenti!»
Guen rimase in silenzio. Il poveruomo si era improvvisamente emozionato. Si toccava lo stomaco come se avesse un groppo. Sembrava non sapesse dove mettere la bottiglia. Finalmente, lo sguardo perso oltre Guendalina, ricominciò:
«Prima che io arrivassi aveva acceso un gran fuoco. Teneva in mano una tanica di plastica con dentro un liquido rosso. Era benzina. Era della strafottuta benzina. Toglieva il tappo, poi lo riavvitava. Era agitato, camminava in circolo, non trovava pace. Mi venivano i brividi, e non per il freddo. Ad un certo punto provò a cacciarmi. “Adesso vai via Dromy! Vai via! Voglio stare solo!”
Ma veniva giù il cielo, acqua, grandine e tutto. E poi, dannazione! Volevo vedere. Non l’avevo mai visto così disperato. Ciondolava qua e là farfugliando… Ha poggiato la tanica per terra. “Meno male. Rinuncia. Vediamo se rinuncia.” Si è tolto l’orologio da polso e l’ha gettato nel fuoco. Si è tolto altre cose, strappata una catenina che aveva al collo ed ha gettato tutto nel fuoco. Poi, rapido come il fulmine ha ripreso la tanica, l’ha alzata sopra la testa e si è inzuppato ben bene. Ho sentito una zaffata di benzina. Tremavo. “Aiutalo, Dromy, non fare l’infame! Fermalo. Ora o mai più!” – dovevo essere io a strillarmi addosso, perché non c’era nessun altro intorno. Dio quanto mi vergogno…» – deglutì più volte – «Sì! Mi vergogno perché ho avuto paura. Paura di quel maledetto fuoco che sembrava allungare i suoi tentacoli verso di me, maledizione!… Insomma, si è messo ad agitare le braccia… a ballare. Ad un certo punto ha preso la rincorsa e si e gettato nel fuoco. Woof!» – si coprì gli occhi con le braccia e dello Spirito del Bottom uscì dalla bottiglia – «Non un grido, niente! Solo io gridavo.» – un lungo silenzio – «Forse aveva deciso che era il Diavolo ad avergli parlato… L’ho guardato rotolare piano, piano, piano verso quelle funi d’acqua che scrosciavano giù dalla Expway. Lo spingevo con gli occhi. Il fuoco che aveva addosso si spegneva e poi maligno ripigliava… se lo voleva mangiare tutto. Alla fine l’acqua lo ha spento… Tutto nero, povero Ezy! Ricordo soltanto di trovarmi sdraiato per terra e un maledetto sbirro che mi prendeva a schiaffi. Era mattina perché s’era fatto chiaro. Mi sono subito incazzato. Non ero mai svenuto in vita mia.»
Agitò la bottiglia contro luce.
«Ce n’è rimasto poco. Proprio non ne vuoi bella?» – voleva sorridere, ma il volto gli si contrasse in una smorfia.
Al no di Guen svuotò la bottiglia. Deglutì più volte.
Guen ebbe l’impressione che gli si fossero inumiditi gli occhi. Attese rispettosamente che si calmasse. Pian piano lo fece. Si raschiò la gola e riprese.
«Sai che ti dico Guen? Quello viene dai quartieri alti. Ha dei modini che fanno pensare ai gay, ma non è gay. No. Gentile con tutti e basta. Capisci quel che voglio dire?»
Rimasero ancora in silenzio, mentre Bobby guardava ora l’una, ora l’altro. Poi Dromy si scosse e, come se avesse preso un’importante decisione:
«Ora ti faccio vedere una cosa segreta, una cosa che gli ho preso… lui crede di averla smarrita, ma non l’ha cercata più di tanto. Mi credi?»
«Ti credo.»
«Poi quando torna gliela ridò. Bobby, figliolo, vai a prendere quella cosina.»
Il ragazzino ricomparve con in mano una medaglia pressappoco delle dimensioni di un orologio da polso maschile, spessa un paio di millimetri.
«È d’oro.» – affermò il barbone – «la puoi guardare ma non toccare… e non fare la furba!»
Bobby gliela mostrò.
«Ne faccio una foto. O. K.?»
Dromy fece una smorfia come per dire “Per me fai pure.”
Era un oggetto di classe, ma soltanto placcato d’oro. Non disse niente. Che per Dromy quello fosse un tesoro, non era una semplice illusione benefica, era qualcosa che lo faceva sentire qualche palmo sospeso sopra quel lurido, sfranto pavimento di cemento.
Su una faccia del medaglione c’era un’immagine in smalto: una specie di tubicino rosso sangue avvolto in un’intreccio complicato. Sotto c’era una scritta: “STANFORD UNIVERSITY” ed ancora sotto: “Department of Mathematics”.
«Puoi girarla Bobby?» – chiese Guen – «Fammi vedere cosa c’è dietro. Cooosì, bravo.»
In caratteri grandi: “THANK YOU DAN!”
E sotto, più in piccolo e corsivo: Huan Teng.
E poi: “ARCS Award for graduates – 2019”
Guen scattò alcune foto anche di quel lato. Ora anche lei aveva il suo piccolo tesoro: un filo sottile ma reale che collegava Faceless ad un’altra persona, ad un certo Dan, non ad un Ezy.
La medaglia era stata trafugata. Ezekiel è probabilmente un fake name, pensò, per nascondere la propria identità. Daniel è il probabile nome di Faceless.
Salutò il barbone, poi, incurante della sporcizia, s’inginocchiò davanti al ragazzino e l’abbracciò stretto. Da una tasca del proprio eskimo tirò fuori una sciarpa di cashmere rossa e blu destinata a Damiano.
«Tieni, Bobby. Tra poco l’inverno sarà qui.» – gliel’avvolse delicatamente attorno al collo. Il ragazzo se l’accarezzò, chiuse gli occhi.
«Th… th…» – si sforzò con tutto se stesso – «th… thanks!» – guardò Guendalina e le regalò un sorriso felice.
Tornata dall’amica fece una piccola indagine. L’ACRS award le risultò essere l’Achievement Reward for College Scientists, un premio conferito a laureati che hanno ottenuto nel tempo eccellenti risultati di ricerca nel loro campo di competenza.
Huan Teng risultò essere un borsista per un post-dottorato di ricerca in Matematica Applicata nel campo degli algoritmi di apprendimento veloce. Tuttavia, in tutto il dipartimento di Matematica le risultarono soltanto un Dan Gabrowski ed un Daniel Thurmer che risposero di persona al numero di telefono indicato sul loro blog.
Anche Huan Teng rispose.
Alla domanda se fosse lui ad aver ricevuto l’Achievement Reward for College Scientists 2019, confermò. Alla domanda chi fosse un certo Dan che lui aveva ringraziato con una certa medaglia, rimase in silenzio. A Guendalina parve di sentirgli mormorare: «Com’è mai possibile?». Gli chiese di ripetere quel che aveva appena detto, ma a questo punto cominciò a fare difficoltà. Non aveva alcuna intenzione di parlare per telefono di questioni private. Era possibile un incontro? Sì. Dove e quando? Al dipartimento, ufficio 382, Sabato 30 alle 3 P.M.
Prenotò immediatamente un volo per San Francisco… Del resto Dagoberto avrebbe fatto così.